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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

IN QATAR IL MIRACOLO ECONOMICO NON FA DECOLLARE LA DEMOCRAZIA

«La nostra compagnia sta facendo la sua parte per realizzare la Visione nazionale», dice Khalid al-Thani. Data l’affermazione - la Visione è nel mirino - il ceo di Qatargas è una persona soddisfatta. I suoi quattro nuovi mega-treni hanno raggiunto la piena capacità: con i tre impianti più vecchi stanno producendo 42 milioni di tonnellate di gas naturale liquido l’anno. Il Qatar già era il primo esportatore, ora è anche il primo produttore.

Gli introiti energetici aiuteranno a finanziare il primo Mundial arabo. Sarà nel 2022 ma la Visione, della quale il calcio è parte come il gas, ha fretta: servono 60 miliardi di dollari per stadi e infrastrutture. Parte della Visione è anche il QIA, il fondo sovrano, proprietà all’estero per 75 miliardi; sono le sette università, sei americane, di Education City. La quale, con la Città finanziaria, il Parco delle scienze e della tecnologia, il museo di arte islamica progettato da I. M. Pei e quello arabo contemporaneo, è frutto di Qatar Foundation. C’è anche l’Accademia sportiva che seleziona i migliori atleti arabi in ogni disciplina. La fondazione non è tanto un fondo di carità creato dall’emiro Hamad al-Thani nel 1995, subito dopo aver esautorato il padre: fu un golpe shakespeariano ma senza sicari. Qatar Foundation è il cervello della Visione.

Come ormai sembrerà chiaro, in Qatar è tutta questione di visione. O meglio, di "National Vision 2030". Il tragitto è chiaro: nel sottosuolo ci sono 26mila miliardi di metri cubi di gas. Fra un paio d’anni la produzione di gas liquefatto salirà a 78 milioni di tonnellate, ma l’emirato già oggi garantisce il 25% delle forniture mondiali: più di quanto l’Arabia Saudita faccia col petrolio. L’immensa ricchezza e gli investimenti che ne deriveranno fra 19 anni spingeranno il Paese nell’ "era post idrocarburi", quella della Nuova economia liberata dalla puzza del gas.

Le cifre del Qatar sono inversamente proporzionali a quelle che l’Onu distribuisce sull’Africa povera. Il reddito procapite è di 83mila dollari, secondo solo all’enclave bancaria del Liechtenstein. Quest’anno la crescita economica sarà del 18,6 per cento. Elettricità, acqua, mutui, scuola dall’asilo all’università sono gratis. I premi pensione sono così alti che i dipendenti pubblici si ritirano a 40 anni con il massimo dei contributi. Insomma, il paradiso in un Medio Oriente dilaniato dai conflitti sociali e politici dai quali il Qatar è fuori. O forse no, non del tutto, nonostante tutto.

«Il Golfo non è lontano dalla tempesta mediorientale. Nemmeno il Qatar», dice Babaker Issa, direttore di Al Rayya, il quotidiano più venduto. «Anche qui i cittadini vogliono istituzioni che li rappresentino come un parlamento eletto. Sono sussurri ma si sentono». Quando l’emiro al-Thani salì al potere promettendo Costituzione e libere elezioni, la gente si era chiesta perché: nessuno ne sentiva il bisogno. Quindici anni dopo, quando nulla di questo è stato fatto, la gente si chiede perché le promesse di democrazia siano state sempre rinviate. I 40 deputati continuano a essere nominati dall’emiro. Il Qatar è l’unico Paese arabo senza un ministero dell’Informazione e una censura istituzionalizzata. Ma, come ammette Babaker Issa, «esiste una linea rossa che non superiamo»: vietato criticare la famiglia al-Thani e la politica estera molto attiva del Qatar: il primo Paese arabo a partecipare alla missione militare in Libia . «Non c’è ragione di criticare l’emiro», precisa subito il direttore di Al Rayya. «Ma quando vediamo le libertà che si prende al-Jazeera, le nostre ci sembrano strette». Anche al-Jazeera è parte di quella rivoluzione delle menti che la Visione vuole creare forse non solo in Qatar: il Paese è piccolo ma la sua ubris valica le frontiere.

«Non si può dare nulla per scontato», sostiene Salman Shaikh, il direttore del Brookings Center per gli studi mediorientali che il think-tank di Washington ha aperto a Doha. «Ma penso che Qatar ed Emirati siano i Paesi più stabili: hanno risorse naturali e leader con una visione». Oltre le contraddizioni, chiunque conosca la regione coglie la diversità di Doha, dove la connessione internet è a disposizione anche nel suk. La prima lezione al campus di Georgetown aperto a Doha s’intitolava "Il problema di Dio". Il docente era un gesuita perché Georgetown è una università cattolica.

Come tutte le visioni, anche quella del Qatar ha un problema. Prevede che nel 2030 ci siano quasi 10 milioni di cittadini, la massa critica necessaria per sostenere l’economia progettata. Il problema è che oggi in Qatar vivono 300mila indigeni e un milione di lavoratori stranieri: naturalizzarli è la sola possibilità per ottenere la demografia desiderata. La legge sul diritto alla cittadinanza è ferma da tempo: è inevitabile ci sia una forte opposizione interna e che prima o poi crescano anche le aspettative degli immigrati. I loro contratti di lavoro non garantiscono il paradiso dei qatarini. In qualche caso sono puro sfruttamento. Come dice Nicholas McGeehan, direttore dell’organizzazione umanitaria Mafiwasta, «permettere alle donne di guidare e non frustare gli omosessuali non rende uno Stato automaticamente progressista».