Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 19 Martedì calendario

UNA CONCORRENZA MODELLO VIETNAM

Sembra che non piaccia a nessuno: la concorrenza è disciplina, confronto, gara. Senza di lei però non c’è crescita. Qualcuno ha voluto dimenticarlo, soprattutto in Italia. Persino alcuni economisti, che pure la considerano una condizione per l’efficienza.

È un errore. Lo studioso francese Philippe Aghion - attento all’evoluzione dell’economia - ha trovato nuove articolate conferme al ruolo della concorrenza nella crescita; e grazie al suo personale contributo, il rapporto Sapir, l’«agenda per la crescita» dell’Unione Europea, ha chiesto per i mercati dei prodotti di tutto il continente «una politica attiva per la concorrenza», diversa dall’attuale approccio che punta solo ad «aprire determinati mercati e reprimere comportamenti anticoncorrenziali». «In futuro - spiegava il documento - sarà indispensabile intensificare notevolmente gli sforzi per accertarsi che i mercati restino o diventino competitivi».

L’innovazione, vera chiave della crescita, non è un processo che possa essere guidato dall’alto. Richiede forze e idee nuove, ed è per questo che il rapporto Sapir invocava a tutti i livelli «misure intese ad agevolare l’ingresso di nuovi soggetti».

Se l’Italia non cresce abbastanza, se ne può dedurre allora che il Paese offra un terreno sfavorevole alle nuove iniziative. È proprio così: né la politica, né il sistema giuridico, e neanche la società le incentivano davvero. La storia dell’economia e della politica economica d’Italia è segnata dall’enfasi sulla protezione delle imprese esistenti, anche se inefficienti, con l’obiettivo fallace di "salvare posti di lavoro".

Accade a volte anche all’estero, è vero; ma questo non può consolarci del fatto che nella classifica della Banca mondiale sul doing business, la facilità di fare e creare impresa (che non coincide con il livello di concorrenza, ma aiuta a valutare l’apertura e la capacità di funzionare dei mercati interni), l’Italia sia 80ª al mondo dietro il Vietnam, la Mongolia, il Montenegro e la Bielorussia. Un pessimo risultato, dietro il quale si nasconde un 86° posto nella sotto-classifica sulla facilità di ottenere credito, e un 157° - dietro il Kosovo e prima del Congo - in quella sulla possibilità di far rispettare i contratti. La Tanzania, per citare il primo Paese della poverissima Africa, è 31ª.

In Italia, invece che di concorrenza si è parlato d’altro e si è fatto altro. Si è insistito sulle privatizzazioni e, per dimensioni, il processo di dismissioni è stato il secondo al mondo dopo quello britannico, anche se la qualità lascia a desiderare, dal momento che la mano dello Stato resta forte in molte aziende e molti settori. Senza contare i casi in cui si è semplicemente trasformato un ente pubblico in Spa, o si sono affidati a privati funzioni pubbliche o monopoli. Creare concorrenza è cosa diversa: spesso in Italia «la privatizzazione - spiegano Emilio Barucci e Federico Pierobon in Stato e mercato nella Seconda Repubblica (il Mulino) - ha coinciso con il passaggio di una posizione di rendita di mercato dallo Stato ai privati». Le operazioni in cui si è ceduto il controllo hanno coinvolto - in controvalore - il 31% del totale.

In ritardo sulle privatizzazioni e in modo molto discontinuo si è proposta qualche liberalizzazione; e quando non si è agito su spinta di Bruxelles, si è intervenuti in modo un po’ squilibrato. Le lenzuolate di Bersani sono così apparse "punitive": erano chiare le rinunce a breve termine che erano imposte, ma non i vantaggi che ciascun settore poteva trarre dalle "liberalizzazioni degli altri".

In Italia si è infine insistito tanto sulla flessibilità. Per quanto sia dolorosa, e ponga una sfida enorme ai sindacati, è difficile dimostrare che per i mercati del lavoro la concorrenza sia dannosa. Da sola, però, la flessibilità fa soltanto male. Richiede un welfare moderno, diverso da quello "mediterraneo", corporativo, dell’Italia che non prevede veri sussidi di disoccupazione, né aiuti al reinserimento.

Va poi affiancata da altre misure: «Le riforme del mercato del lavoro di maggior successo hanno deregolamentato anche i mercati dei prodotti», spiega uno studio sul nostro Paese compiuto per l’Fmi da Martin Schindler, che aggiunge: «Il mercato dei prodotti italiano è tra i più regolati d’Europa, e la loro riforma non ha costi fiscali e rende più semplici ulteriori riforme del mercato del lavoro». Il risultato è che una maggior concorrenza «dovrebbe essere una priorità, in Italia». Un’idea condivisa anche dall’Ocse. Altrettanto urgenti sono le liberalizzazioni dei servizi e delle professioni, da noi come in altri Paesi, a cominciare dalla Germania.

È stata proprio l’influenza del modello tedesco o "renano", male inteso e male interpretato, ad aver spinto la concorrenza in secondo piano. Meglio - si è pensato - puntare alla cooperazione, al "fare sistema". Tutto questo si è tradotto, tra le altre cose, in un mercato finanziario opaco, dominato fino all’esasperazione da rapporti personali: si è alimentato un "capitalismo delle relazioni" elitario e chiuso. Non a caso il Paese è tra i più chiusi agli investimenti esteri, e le imprese non sono contendibili: come avviene anche in Europa, si tende a trasformare in legge un pregiudizio positivo per l’azionariato attuale, indipendentemente dalla sua efficienza, e uno negativo verso i diritti degli azionisti di minoranza, spesso investitori istituzionali che possono rendere dinamico il sistema. Anche con le scalate.

Un sistema diverso non funzionerebbe? È difficile negare che la concorrenza possa creare problemi: procede per tentativi ed errori, e le strade senza uscita costano. Un metodo che garantisca risultati "a priori", però, non esiste e le ricerche empiriche - anche quelle italiane, sulle piccole differenze tra le singole Regioni - sono chiare: meno concorrenza significa meno occupazione, più concorrenza meno inflazione. Qual è del resto il segreto degli esportatori cinesi? Il partito comunista? O forse la concorrenza internazionale che non fa sconti a nessuno?

La verità è che passare da un sistema protetto a uno concorrenziale fa paura. Soprattutto alle élite che non vogliono veder turbati il loro potere e la loro influenza. Occorrerebbe un "grande accordo", politico e sociale: a cavallo del XXI secolo, negli Stati Uniti la competition è stata, secondo Paul A. London, un obiettivo bipartisan, anche se non sempre perseguito con coerenza, come mostra il proliferare di protezioni, monopoli anche "intellettuali", e conflitti d’interesse, soprattutto nella finanza protagonista della recente crisi.

L’Italia è però lontanissima anche da quell’imperfetto modello. Il recente dibattito sulle modifiche all’articolo 41 della Costituzione ha mostrato come il tema resti estraneo alla nostra cultura. «L’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», dice l’emendamento del Governo. «La legge tutela e promuove la concorrenza effettiva nei mercati, difendendo la libera iniziativa economica dei privati e garantendo gli interessi del consumatore o utente», è invece, per esempio, la formulazione proposta dal giovane economista Massimiliano Vatiero, dell’Università della Svizzera italiana. La differenza è stridente.