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 2011  aprile 19 Martedì calendario

SACRIFICI NEL NOME DELLE BANCHE

Sull’Italia, come su molti Paesi, incombe la stangata fiscale necessaria per ridurre un debito pubblico sempre più alto: fra i paesi che hanno superato il rapporto del 100 per cento fra debito e reddito, ci fanno buona compagnia Giappone, Stati Uniti, Belgio, Irlanda, Grecia mentre Francia e Regno Unito si accingono a superare il 90. Per ridurre il debito occorre portare in surplus il bilancio corrente dello Stato, cioè, nel linguaggio di ogni padre di famiglia, incassare più di quanto si spende. Dobbiamo allora consolarci pensando che si tratta di un male comune, da attribuire all’avversa situazione economica e al solito destino cinico e baro?
Non proprio, perché qualcosa non torna nei conti. Innanzitutto, se sul mondo occidentale incombe questo spettro, sappiamo chi ringraziare: l’enorme crescita del debito privato, culminata nella crisi finanziaria che dura ormai da quattro anni. Con l’eccezione dell’Italia, in tutti i grandi paesi occidentali il debito degli Stati è cresciuto dopo le prime avvisaglie della crisi perché bisognava salvare le banche e limitare la caduta drammatica dell’attività produttiva. Certo, curare un eccesso di debito privato con nuovo debito pubblico è un po’ come cercare di far passare una sbornia a forza di grappini, ma in quel momento non c’erano realisticamente alternative. In ogni caso, si disse, le grandi banche internazionali che avevano provocato la crisi sarebbero state riportate a un sistema di regole più severo e tale da contenerne in futuro gli eccessi.
Il guaio è che questo fondamentale tassello della strategia è ancora in alto mare: lo afferma senza mezzi termini l’austero Fondo monetario internazionale nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, in una sezione significativamente intitolata “Il sistema bancario mondiale: non è stato fatto abbastanza”. E più si aspetta, più cresce il potere politico delle banche di bloccare le riforme, come è avvenuto negli Stati Uniti l’anno scorso e oggi nel Regno Unito. Le proposte, ripetute ancora ieri dall’autorevole fondo americano di tutela dei depositi di costringere le banche ad usare più capitale per l’attività più propriamente speculativa (quindi a ridurre la parte bancaria del debito), hanno suscitato la solita ondata di reazioni sdegnate. Un importante banchiere inglese ha addirittura dichiarato qualche settimana fa che “il tempo del rimorso è finito”. E poi dicono che uno si butta a sinistra, avrebbe commentato Totò.
In Europa la situazione è ancora più complessa perché paesi come Irlanda, Grecia e Portogallo hanno raggiunto livelli di debito pubblico talmente elevati che prima o poi qualcuno dovrà chiedere ai creditori una ristrutturazione, più o meno drastica. Il guaio è che ciò darebbe origine a perdite per le banche creditrici, che stanno in Francia, Germania e Regno Unito. Ancora una volta dunque, in nome degli interessi delle banche, si è rinviato il problema, sperando che i “salvataggi” di volta in volta decisi dall’Europa fossero risolutivi. E così l’indulgenza verso le banche ha portato ad indirizzare il rigore solo verso il settore pubblico.
La smania di intransigenza si è spinta a tal punto che il nuovo accordo europeo continua a considerare come misura ideale per il debito pubblico quel rapporto del 60 per cento rispetto al Pil che avevamo scelto oltre venti anni fa, in uno scenario completamente diverso e nonostante che oggi persino la Germania veleggi oltre l’80. Ma questo consente ad Angela Merkel di dire al proprio elettorato che l’austera Germania sta riportando sulla retta via un’Europa riottosa e spendacciona, in attesa del 2013, quando verrà avviato il patto per l’euro faticosamente siglato in questi giorni. Ma i problemi continuano fatalmente ad aggravarsi, sia sul piano economico (la Grecia sta pagando tassi di interesse esorbitanti) sia su quello politico. In Finlandia un partito ultraconservatore (i “Veri finlandesi”: un nome, una garanzia direbbe Calderoli) è passato dal 4 al 19 per cento e condizionerà il futuro Parlamento che, avendo il potere di esprimersi sul patto europeo, potrebbe porre il veto del piccolo paese ai compromessi dilatori disegnati sull’asse Parigi-Berlino.
Soprattutto in Europa sarebbe dunque il tempo di affrontare il problema alla base, riconoscendo che il risanamento deve colpire non solo le finanze pubbliche dei paesi periferici, ma anche le banche dei paesi più ricchi, in particolare di Francia, Germania e Regno Unito, addossando loro una parte del costo della ristrutturazione, sotto forma di perdite immediate e di regole più severe per il futuro. Sarebbe questo anche il modo per alleggerire il peso del risanamento sull’Italia, facendo valere i nostri elementi di vantaggio sotto il profilo della finanza privata, inclusa quella delle banche. Ma la formula di riduzione del debito che abbiamo sottoscritto e che ci impegnerà per oltre dieci anni riguarda solo il debito pubblico e sarà sostenibile se il Pil aumenterà stabilmente del 2 per cento all’anno. Una crescita doppia di quella attuale, che negli ultimi 16 anni abbiamo toccato solo tre volte (l’ultima nel 2006) ma che dovrebbe tornare raggiungibile grazie al “Piano nazionale di riforma” presentato dal governo. Ma la sigla Pnr, come scrive Tito Boeri su lavoce.info si può interpretare anche come "proprio nessuna riforma", tanto il documento è generico e privo di contenuti specifici. Se queste sono le premesse, la “frustata all’economia” annunciata da Berlusconi, piacerà solo al barone Von Masoch.