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 2011  aprile 18 Lunedì calendario

La scuola progressista? Senza voti, libri e prof - Dopo il successo di pubblico del libro di Paola Mastro­cola ( Togliamo il disturbo , Guan­da) sembra diffon­dersi sempre di più la consapevo­lezza che, per arginare il disastro della scuola, occorra battere con decisione la via del rigore, della se­rietà e della qualità degli studi, della restituzione all’insegnante di tutto il prestigio della sua fun­zione, soprattutto per ridare al Pa­ese speranze nel futuro, che sol­tanto una gioventù preparata, col­ta e capace può rendere concre­te

La scuola progressista? Senza voti, libri e prof - Dopo il successo di pubblico del libro di Paola Mastro­cola ( Togliamo il disturbo , Guan­da) sembra diffon­dersi sempre di più la consapevo­lezza che, per arginare il disastro della scuola, occorra battere con decisione la via del rigore, della se­rietà e della qualità degli studi, della restituzione all’insegnante di tutto il prestigio della sua fun­zione, soprattutto per ridare al Pa­ese speranze nel futuro, che sol­tanto una gioventù preparata, col­ta e capace può rendere concre­te. Si può dunque sperare che le forze che hanno propugnato con tutti i mezzi l’ideologia del «non studio» siano in ritirata? Ecco una bella illusione. Al contrario. Nei laboratori del pedagogismo «progressista» - che trova peral­tro a­lleati anche a destra e si avva­le di agganci in talune associazio­ni professionali, taluni sindacati e in settori dell’amministrazione - si almanaccano ricette ancor più «avanzate» e «rivoluziona­rie »; si procede con l’ostinazione delle termiti e con la sordità a qualsiasi obiezione tipica di chi si sente investito di una missione sa­cra. Si vuole un assaggio delle ricet­te che v­engono apprestate in que­sti laboratori? Basta rifarsi a un ri­ferimento esemplare che circola in questi ambienti, il decalogo dell’analista di politiche scolasti­che Robert Hawkins. Vediamo quale immagine della scuola del futuro ne emerge, tanto per avere un’idea dei modi con cui dovreb­bero studiare (si fa per dire) i no­stri figli. Cominciamo dall’ambiente fi­sico. Gli studenti vanno a scuola. Entrano in un’aula? Niente affat­to. Tutti i muri sono abbattuti e la scuola è diventata un open space . Qua e là vi sono tavoli con appara­­ti tecnologici, in modo che gli stu­denti si aggreghino per fare delle «attività». Un gruppetto decide di fare una ricerca un argomento di storia, un altro di approfondire a scelta un argomento di ecologia, qualcuno vuole fare da solo. Stia­mo scherzando? Niente affatto. Il grande«progresso»è che non de­vo­no esistere più programmi sco­lastici, né libri, né tantomeno in­segnanti che rappresentino la fonte della conoscenza. La scuo­la (ma è in discussione se debba ancora chiamarsi così) deve tra­sf­ormarsi in uno spazio di costru­zione autonoma delle proprie co­noscenze e competenze. Insom­ma, bando alla deleteria «trasmis­sione » della cultura del passato. I giovani ricostruiscono da soli o in gruppo le conoscenze. I libri non servono,anzi sono l’immagine di un’orrida cultura impositiva,tra­smissiva, autoritaria, ex cathe­dra . I ragazzi, dotati di mezzi in­formatici, mettono in rete le loro esperienze didattiche, costruite sfruttando quelle già depositate da altri studenti. La cultura, la co­noscenza, le biblioteche, i libri, so­no sostituiti dal repository delle esperienze didattiche «autono­me ». Quale ruolo resta all’inse­gnante in questo processo? Sol­tanto quello di «specialista della gestione dell’istruzione», un «fa­cilitatore » che aiuta gli studenti a cercare le informazioni, una sor­ta di animatore culturale del ge­nere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini; tanto che è in discussione se nel futuro la figura dell’insegnante servirà ancora. Ho sentito più di un manager o dirigente di sezioni di ricerca di aziende lamentarsi degli incon­venienti dell’ open space , degli ostacoli che frappone a pensare, riflettere,progettare.Ma,per que­sti ideologi, l’ open space deve es­sere introdotto proprio nel luogo deputato allo studio. Ma qui sta l’equivoco:parlare di studio è ro­ba da vecchi arnesi della cultura. Un punto centrale del decalogo è che la scuola deve basarsi sulla centralità del «giocare», il «gioca­re serio» su Internet che permet­terebbe di far crescere le intera­zioni sociali e addirittura il senso civico. Insomma, la scuola non serve a studiare ma è soprattutto un luogo di socializzazione. Del resto, non è da questi laboratori ideologici che è uscita l’esilaran­te affermazione secondo cui il vi­deogioco è la più grande rivolu­zione epistemologica del Nove­cento? Quindi, esperienze didattiche autonome, apprendimento gio­coso che si fa ovunque, da soli, da compagno a compagno, o a grup­pi, pescando in rete quel che ser­ve con l’eventuale aiuto del gesto­re­ facilitatore. Qui nasce il capito­lo «strumenti» che vede il ruolo centrale della tecnologia infor­matica. Se qualcuno crede che tutto si riduca a dotare gli studen­ti di tablet per non portare a scuo­la carichi di libri, è rimasto alla preistoria. Quali libri? Qui si parla di un sapere diffuso costruito rac­cattando di tutto in rete con ogni mezzo. Quindi, anche i compu­ter e le reti di computer connessi in rete sono importanti ma non si proiettano nel futuro didattico, che ha il nome di telefono cellula­re, di smartphone. Scuola sarà si­nonimo di smartphone. Del re­sto, già ora c’è chi dice che gli edi­tori farebbero bene a non mette­re figure nei libri, tanto lo studen­te munito di smartphone ( genito­ri, preparatevi all’acquisto) su suggerimento del facilitatore sca­richerà dalla rete le figure richie­ste, che si tratti del teorema di Pi­tagora o del Mosé di Michelange­lo. Un ultimo capitolo riguarda la valutazione. Niente più voti, ma soltanto valutazioni formative completamente automatizzate, e un «portfolio» che illustra le competenze acquisite, eventual­mente anche un portfolio di grup­po (sarà da ridere quando verrà presentato al datore di lavoro). Qualsiasi persona ragionevole capisce quale insulto all’intelli­genza rappresenti l’idea forsen­nata di sostituire la cultura accu­mulatasi in qualche millennio di storia con il repository delle espe­rienze didattiche di adolescenti. Qualsiasi persona con i piedi per terra, chiunque abbia mai visto in vita sua un bambino o un ragaz­zo, si figura quale colossale buffo­nata, quale circo, quale farsa pro­durrebbero inevitabilmente ri­cette del genere, che possono uscire soltanto dalla cucina del più astratto fanatismo ideologi­co. La mattina si entra a «scuola» a orari variabili, personalizzati. «Papà, oggi entro alle 12, perché ho concordato a quell’ora una ri­cer­ca transdisciplinare sulla que­stione energetica con Franco e Elena;prima vado a fare un “gio­co serio” in rete». «Ci da una ma­no, facilitatore? Vorremmo fare una ricerca sul conflitto d’interes­si ». «Ma non vi sembra che da tempo non fate nulla di matema­tica? ». «La matematica è antiso­ciale e comunque le equazioni di secondo grado no, sono repressi­ve ». «Facilitatore, ho saputo che in Spagna hanno avviato un pro­getto scolastico sulla masturba­zione detto “La felicità nelle tue mani” ( verissimo, ndr ). Io e Fran­cesco vorremmo studiarlo e ap­profondirlo ». «Ora vi aiuto a tro­varlo in rete ».«A me non mi si sca­rica la foto di Einstein, mi si è im­pallato l’i-phone». Non vi va di studiare la fisica? Nessun proble­ma: non ci sono programmi. C’è chiasso nell’ open space ? Niente da fare. Non esiste voto di condot­ta. Del resto, le urla sono una mo­dalità di socializzazione, come il bullismo. Bene, non possiamo abusare dello spazio del giornale e offen­dere la fan­tasia del lettore che cer­tamente immaginerà da solo sce­nari ancor più surreali e diverten­ti, si fa per dire. Si chiederà chi pro­pugna queste cose. Non voglia­mo far torto a nessuno, prenden­docela con l’uno piuttosto che con un altro. Del resto, basta an­dare in rete (magari con lo smar­tphone...) per rendersi conto di quanto pulluli questa ideologia. Questa è la scuola che si vorrebbe costruire per far impallidire le de­scr­izioni dell’attuale degrado pro­poste da Paola Mastrocola. Que­sto è­il medioevo prossimo ventu­ro che si vorrebbe riservare al Pae­se.