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 2011  aprile 18 Lunedì calendario

A Sant’Onofrio processione di Stato - Volete che diciamo che non abbiamo paura? E invece sì che abbiamo paura, e anche tanta

A Sant’Onofrio processione di Stato - Volete che diciamo che non abbiamo paura? E invece sì che abbiamo paura, e anche tanta. Allora o qui la processione la fa lo Stato, la facciamo tutti, o non la fa nessuno». Saltati i confini evangelici tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio, perché la ‘ndrangheta fa un conto unico e fagocita tutto, in Calabria l’ultima frontiera è la processione di Stato. Soluzione obbligata e delicata - bisogna dosare fermezza e discrezione prefettizie - per affrancare una sacra sfilata dall’ipoteca dei boss. Cesare convoca, organizza, pianifica, rassicura le anime intimidite dalla malavita. Dio benedice e ringrazia. A Sant’Onofrio, tremila abitanti a ridosso di Vibo Valentia, credevano di aver visto tutto l’anno scorso, con il priore della Congregazione del Santissimo Rosario minacciato a colpi di fucile per aver escluso i picciotti dalla processione della Madonna dell’Affruntata. Ma quest’anno va peggio: il vescovo ordina «fuori le ‘ndrine dalla processione» e l’intimidazione colpisce la squadra di calcio del paese, scelta dalla Chiesa per portare in spalla le statue (Maria Addolorata, Cristo risorto e San Giovanni) nel giorno di Pasqua. Ruolo ambito in un secolare rito di devozione popolare, rivendicato come simbolo di potere dalla ‘ndrangheta, che si nutre di religiosità pagana fin dal battesimo di affiliazione: il nuovo adepto giura con la figurina di San Michele Arcangelo che va a fuoco tra le sue mani. La liturgia malavitosa della processione si declina in tutti i paesi calabresi. Prima che fosse vietata, la statue venivano assegnate con un’asta, in cui nessuno osava rilanciare alle generose offerte delle ’ndrine. E dunque le statue sfilavano sulle spalle dei picciotti. Il boss locale li precedeva camminando all’indietro con il volto rivolto al santo. Poco tempo fa, in una cittadina dell’Aspromonte, la processione ha cambiato percorso per transitare sotto la casa del capobastone agli arresti domiciliari. Anche a Sant’Onofrio la processione era «cosa loro», prima del diktat del vescovo. Un affronto che non poteva rimanere impunito, pena la perdita del prestigio sociale. Inevitabile la reazione della cosca locale, che se la prende con la squadra di pallone, investita dell’incarico. Prima occhiate oblique per strada e mezze battute al bar, poi messaggi alle orecchie dei giovani giocatori. Infine le minacce dirette. Al presidente, «consigliato» per telefono di «stare lontano dall’Affruntata», e all’allenatore, che la mattina della partita si ritrova i copertoni dell’auto squarciati. Dirigenti atterriti e mamme dei calciatori in lacrime a implorare il passo indietro. La festa per l’ultima partita di campionato diventa un incubo: tutti a chiedere della processione, arriva persino la tv. Gli atleti (tra 20 e 30 anni: studenti, muratori, impiegati) uno dopo l’altro si sfilano dall’incarico: «Per favore, abbiamo paura, lasciateci stare». Naturalmente la disdetta deve avere il massimo risalto in paese, in modo da rassicurare gli interessati. «Loro», così vengono evocati. Vescovo silente e parroco disperato, rimasto solo nella scomoda parte di chi ha sfidato i boss. A dieci giorni da Pasqua, nessuno vuol rischiare la vita per una processione. «Siamo contro la ‘ndrangheta, ma abbiamo il diritto di non essere eroi», raccontano in paese. Dio chiede aiuto a Cesare. Luisa Latella, prefetto decisionista, propone addirittura di far portare le statue a carabinieri e poliziotti. Ma sarebbe un boomerang, la gente non gradirebbe. Allora convoca i dirigenti della squadra di pallone e i vertici della Chiesa. «La mafia non può vincere», spiega illustrando il suo piano per scongiurare un rinvio della processione, come l’anno scorso, un certificato d’impotenza. E così nasce la prima processione di Stato, organizzata in prefettura perché la Chiesa da sola non ce la fa. Si decide di convocare tutte le associazioni della zona, una decina, affinché ciascuna fornisca un portastatua. Così nessuno sarà solo contro la ‘ndrangheta. «Se ci stanno tutti, ci stiamo anche noi», dicono i recalcitranti. E così si trova la quadra, a una settimana dall’evento. Nel frattempo, città blindata, agenti ovunque e scorta per quelli che danno la disponibilità a portare le statue. A Sant’Onofrio, con un quinto della popolazione legato alla criminalità e il Comune sciolto per mafia due anni fa, la paura è un fatto fisico. Si respira, si tocca. Anche in chiesa, dove don Franco, dopo la messa del pomeriggio, a sentir parlare di processione impallidisce, si dilegua dietro l’altare e si barrica in sagrestia: «Ho da fare». Non meno ermetico il vescovo Luigi Renzo: «Quel che volevo dire l’ho scritto, ora non mi riguarda più». Franco Petrolo, cinquantenne presidente della squadra di calcio, fa il messo comunale, ma le sue passioni sono la pittura («Ho studiato all’accademia di Brera») e il calcio («ero un’ala destra alla Domenghini»). Discorre amabilmente di Van Gogh e Palanca, mitico centravanti impressionista del Catanzaro. In paese lo chiamano «il professore», e non si capisce se per le pennellate vigorose o in memoria del gol in un lontano derby, che valse al Sant’Onofrio la promozione in seconda categoria. Due anni fa, ha deciso di rifondare la squadra, mettendo insieme venti ragazzi, l’idraulico Luigi Naccari a fare l’allenatore, un cugino come direttore sportivo, palla avanti e pedalare. Risate, trasferte di gruppo, pizza e birra. Autotassazione e qualche sponsor per racimolare gli 8 mila euro di budget stagionale. In un territorio che il procuratore di Vibo Mario Spagnuolo definisce «un Far West, in cui è massima la saldatura tra criminalità e società civile» e che vanta il record italiano di disoccupazione giovanile (27%), il pallone è un prezioso strumento di Welfare di base. Per questo il vescovo e il parroco si erano rivolti ai calciatori, come simbolo pulito della città. E loro avevano accettato entusiasti di portare le statue dell’Affruntata, prima del terrore: «Mai avremmo potuto immaginare quel che avremmo subito». Tra una settimana le sosterranno, quelle statue, ma con spalle più robuste.