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 2011  aprile 18 Lunedì calendario

"Abbiamo il dovere di proteggere" - È il momento di un parziale ripiegamento per l’America. Qui a Washington si chiama «retrenchment»

"Abbiamo il dovere di proteggere" - È il momento di un parziale ripiegamento per l’America. Qui a Washington si chiama «retrenchment». La vera guerra di Obama si combatte sui tagli di bilancio. Perfino i vertici militari sono ormai d’accordo su un punto: la principale minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti è l’entità del debito. In una condizione del genere, e con due guerre già in corso, diventa difficile giustificare la campagna di Libia. Per questo la Casa Bianca ha deciso di combatterla così: con un piede dentro e uno fuori. Il problema è che - lasciato il comando alla Nato - la missione non sta funzionando. Senza la leadership americana, il che significa senza le capacità militari degli Stati Uniti, gli europei non sono ancora in grado di cavarsela. Anche per questa ragione Madeleine Albright, la prima donna a essere diventata Segretario di Stato durante la presidenza di Bill Clinton, a metà degli Anni 90, è convinta che l’America resti la nazione «indispensabile». Capo della diplomazia americana ai tempi delle guerre nei Balcani, Albright è ancora una voce ascoltata alla Casa Bianca. Nel dibattito sulla Libia, si è espressa a favore di Barack Obama, attaccato invece duramente sia da chi ritiene che l’America non sarebbe dovuta intervenire (i realisti, democratici e repubblicani) sia da chi pensa che gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto cedere la leadership (John McCain e una parte dei «neo-conservatori»). Signora Albright, quando era Segretario di Stato lei definì l’America in questi termini: «la nazione indispensabile». Il senso era che la gestione delle crisi internazionali richiedeva in ogni caso un coinvolgimento degli Stati Uniti. Era l’America a fare la differenza. Oggi siamo però in una fase dominata dal problema della riduzione del bilancio federale. Non è chiaro, quindi, se gli Stati Uniti abbiano ancora le risorse, il consenso interno e la propensione per una politica estera interventista su scala globale. È cominciata una fase di parziale ripiegamento? «Non c’è dubbio che siamo entrati in un periodo delicato, direi addirittura molto difficile, anche per la politica estera. Il dibattito sul bilancio è centrale; e questo influenza le scelte internazionali. Non solo: c’è un grado di polarizzazione interna senza precedenti, che rende complicata la definizione di una politica estera. E tuttavia continuo a pensare che gli Stati Uniti siano la "nazione indispensabile", secondo l’espressione che avevo coniato più di dieci anni fa. Indispensabile significa che dobbiamo comunque restare impegnati all’esterno, che non possiamo diventare isolazionisti. Ma impegnati non significa necessariamente da soli. Barack Obama ha ragione su questo: abbiamo bisogno di agire insieme ad altri Paesi. L’intervento in Libia è un tentativo in questa direzione». Sì, ma i risultati sono dubbi. Lei è stata a favore della partecipazione americana. Tuttavia, esiste anche una corrente molto critica, secondo cui l’America non sarebbe dovuta intervenire in Libia dal momento che non ha interessi nazionali in gioco. Dunque, si tratta di difendere dei valori, invece che degli interessi? «Sono stata a favore dell’intervento in Libia perché ritengo che fosse impossibile rimanere a guardare mentre Gheddafi minacciava di massacrare la gente di Bengasi. Ma la questione Libia pone un problema più generale: quale è la definizione di interesse nazionale? Cosa rientra nell’interesse nazionale? La risposta è molto semplice quando si tratta di interessi vitali: un attacco all’America mette in gioco interessi vitali di sicurezza, evidentemente. È più complicato definire gli interessi nazionali quando si tratta di agire non per auto-difesa ma per promuovere degli obiettivi esterni. L’America ha anche degli obiettivi umanitari. E qui la mia convinzione è netta: non credo che esista una differenza di fondo fra valori e interessi. La politica estera degli Stati Uniti si basa su entrambi. Quando si perde questo equilibrio, quando manca una dimensione morale, l’America perde anche il senso di direzione» La dottrina della «responsabilità di proteggere» evocata appunto nel caso della Libia, ha al centro la difesa di valori umanitari. Lei pensa davvero che questa dottrina abbia un futuro, considerati i doppi standard e tutte le incoerenze dell’azione internzionale? Interveniamo in Libia ma non lo facciamo in casi altrettanto gravi, o più gravi. «E’ una dottrina importante, in cui credo e che oggi insegno all’Università. Il principio della "responsabilità di proteggere" è stato avallato dalle Nazioni Unite; ed è già evoluto al di là delle missioni classiche di peace-keeping. Ma è difficile dire come potrà essere applicato. Responsabilità di proteggere significa che la comunità internazionale, gli Stati nel loro insieme, hanno dei doveri anche verso le popolazioni civili. Oggi abbiamo molte più informazioni su quello che accade all’interno dei vari Paesi; un tempo potevamo pretendere di non saperlo. Le implicazioni sono rilevanti: la sovranità nazionale non è più un concetto assoluto; la non-interferenza negli affari interni degli altri Paesi non è più un principio rigido. Ma poi bisogna , naturalmente, che qualcuno sia disposto a intervenire: gli Stati Uniti o la Nato o una coalizione ad hoc. E ciò crea dei problemi, delle resistenze, delle incoerenze. La mia conclusione provvisoria è questa: siamo di fronte a una dottrina affascinante, che ha cambiato il modo di guardare al problema della responsabilità internazionale; ma davvero non so come e fino a che punto potrà sempre trovare un’applicazione concreta». Parliamo un momento di un altro futuro, quello dell’Europa. Come ricorderà, in una conferenza a Venezia di Aspen, nel 2000, lei proiettò una mappa piena di acronimi e di sigle sulle istituzioni europee, per concludere così: mi sembra un «Euro-mess», un «euro-pasticcio», l’Europa è troppo complicata per essere capita dall’esterno. L’implicazione politica era che gli Stati Uniti avrebbero preferito un interlocutore unitario. Le sembra che le cose siano migliorate da allora? «Allora pesava l’eredità dell’intervento in Kosovo; i rapporti con gli europei erano stati complessi da gestire. E io arrivati a Venezia con la mia mappa sulle istituzioni e sulle sigle dell’Europa: la mappa sull’Euro-mess. Volevo provocare una reazione, naturalmente. E la reazione fu. Oggi ho sentimenti misti sull’Europa. Mi pare che ci sia la volontà di fare di più in campo economico. La crisi dell’euro ha alla fine prodotto decisioni importanti anche se ha fatto emergere spinte nazionaliste. Esistono nuovi sforzi per rendere il mercato interno più competitivo. Ma esiste anche il rovescio della medaglia: per esempio la mancanza di solidarietà in materi di immigrazione, voi italiani lo sapete bene. E le differenze tra Francia e Germania sulla Libia sono state più che evidenti. Insomma: la mia mappa di Venezia sulla confusione europea è in parte ancora valida». Le donne, non c’è dubbio, sanno essere molto dirette. Mi chiedo se ci sia un motivo specifico per cui tre donne sono diventate segretario di Stato in America: prima lei, poi Condoleezza Rice e infine Hillary Clinton. Si è trattato di un caso o di un trend? Le sembra che le donne siano particolarmente adatte a gestire la politica estera? «Quando diventai Segretario di Stato mi fece molto piacere: fui la prima donna ad assumere la guida della diplomazia americana. E’ stato un grandissimo onore. Poi la cosa si è ripetuta; ma non credo che si tratti di una questione di "genere". Il problema è di scegliere, per un posto così impegnativo, delle persone qualificate; e le donne, oggi, possono esserlo. Non è stato un caso, quindi; ma non è neanche un trend necessario. La scelta cadrà sulla persona più adatta, uomo o donna che sia. Mi viene in mente quello che disse allora la mia nipotina, che aveva sette anni: "Ma cosa c’è di tanto speciale che la Nonna diventi segretario di Stato? Possono diventarlo solo le ragazze?" Allora era una cosa molto speciale, in realtà. Oggi non lo è. Il che significa che abbiamo compiuto un bel pezzo di storia».