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 2011  aprile 18 Lunedì calendario

MERCATI: LA FASE 2? HA I DIFETTI DELLA PRIMA

A un certo punto c’è stato un momento di imbarazzo. La sala era la Great Hall Lobby del Mount Washington di Bretton Woods: quella dove John Maynard Keynes, Harry Dexter White e Henry Morgenthau, segretario al Tesoro di Roosevelt, negoziarono con 44 Paesi gli assetti dell’economia mondiale dopo la fine dell’Italia fascista e della Germania hitleriana. Il silenzio, quasi 70 anni dopo, è sceso quando è stato pronunciato un nome già temuto allora, nel ’ 44. Simon Johnson, docente del Mit ed ex capoeconomista dell’Fmi, era appena salito sul podio e aveva chiesto: «Alzi la mano chi lascerebbe fallire Goldman Sachs, invece di salvarla con il denaro dei contribuenti» . Nessuno ha mosso un muscolo, ma nessuno ci ha trovato niente da ridere. L’Institute for New Economic Thinking, voluto e sostenuto da George Soros, aveva riunito nel New Hampshire alcuni fra gli economisti e uomini di finanza e di Stato più influenti per un week-end di conversazioni attorno al suo oggetto sociale: ripensare su basi nuove l’architettura finanziaria dopo la peggiore crisi dagli anni ’ 30. Gli ultimi 30 anni avevano insegnato che i mercati hanno (quasi) sempre ragione, ma la domanda che Simon Johnson stava rivolgendo ai presenti è sul da farsi quando i mercati hanno torto. Quel momento di silenzio stato riempito per la durata della Bretton Woods dell’ 8-11 aprile da un senso di vulnerabilità legata al sospetto che l’economia globale non abbia cambiato rotta. Gli squilibri fra debitori e creditori tornano a crescere, la concentrazione industriale e finanziaria è più radicata, la cattura del reddito da parte di minoranze nelle grandi economie è più pervasiva. I dubbi su Pechino Victor Shih della Northwestern University ha, per esempio, instillato il dubbio che la Cina non sia finanziariamente solida come appare. È vero, le sue riserve ufficiali sono a 3 mila miliardi dollari anche dopo che la banca centrale ha approfittato dell’attivismo della Federal Reserve per rendere agli americani alcuni dei buoni del Tesoro Usa che Pechino non vuole più. Ma per Shih è la struttura patrimoniale nella società a scricchiolare: secondo i dati ufficiali, l’ 1,5%della popolazione cinese controlla il 45%degli attivi bancari e il 67%dei beni in gestione patrimoniale. È un tesoro da 5 mila miliardi di dollari (inclusi gli immobili). Ma concentrare i propri risparmi Shanghai o di Pechino significa trovarsi in un posto scomodo: causa dell’alta inflazione, i rendimenti netti dei bond sono negativi. L’élite cinese potrebbe trasferire parte dei propri fondi all’estero se in patria non fruttano, ma anche solo la fuga di mille o duemila miliardi rischia lasciare in ginocchio il sistema bancario del Paese. Di qui il potere implicito sul partito comunista cinese, chiamato a garantire che la Borsa e i valori immobiliari salgano sempre, di bolla in bolla, pur di assicurare che capitali restino in patria. Pochi ricchi dettano le scelte dell’intera economia, anche a rischio surriscaldarla. Il «listino prezzi» È quella che Martin Wolf del Financial Times ha definito Bretton Woods «una dinamica da plutocrazia» , simile a quella degli Stati Uniti. Thomas Ferguson, dell’università del Massachusetts, ha fornito qualche dettaglio: secondo lui i posti nelle commissioni bancarie e finanziarie del Congresso sono distribuiti a senatori e rappresentanti in base ai loro contributi finanziari (i presidenti di commissione pagano di più). «C’è un listino prezzi» , ha riassunto Ferguson. Che ha rivolto un’accusa anche ai regolatori: «In un sistema in cui guadagnano decine di volte meno dei banchieri da loro regolati, la tentazione prepararsi a cambiare sponda irresistibile» . Se un sistema dominato dalla concentrazione finanziaria vulnerabile, lo stesso può accadere all’industria. Barry Lynn della New America Foundation ha mostrato come il terremoto del Giappone abbia frenato catene di produzione in tutto mondo: da Toyota o General Motors in Giappone o negli Stati Uniti, ai beni tecnologici consumo anche in Europa. L’area colpita dallo tsunami concentrava infatti il 60%della produzione globale di certi semiconduttori e fino al 100%alcune componenti auto. La ripresa procede dunque con alcuni degli antagonismi prima. L’ex premier di Londra Gordon Brown ha rivelato un retroscena eloquente sul mancato accordo al G20 dell’ottobre scorso. Brown aveva negoziato riservatamente con cinesi e americani un’intesa per un riequilibrio fra Paesi creditori debitori. Poi, alla vigilia del vertice, il segretario al Tesoro Usa Tim Geithner ha proposto pubblico un tetto vincolante del 4%del Pil agli avanzi commerciali. I cinesi hanno temuto una trappola e hanno subito ritirato le concessioni offerte Brown. Fra il 2005 e il 2010 ha concluso l’ex premier di Londra — i Paesi emergenti sono cresciuti del 45%, le economie avanzate appena del 5%e su entrambi i fronti le differenze interne di reddito sono cresciute. La seconda Bretton Woods ha almeno prodotto una diagnosi di un sistema che la grande recessione, nel bene e nel male, non è cambiato meno del previsto.