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 2011  aprile 18 Lunedì calendario

«NOI, LA SPORCA DOZZINA». GLI ESCLUSI DELLA THYSSEN —

La differenza tra vivere o morire può anche essere una pacca sulle spalle. Alle 22 del 6 dicembre 2007 Giuseppe De Masi raggiunse Mirko Pusceddu nella postazione in fondo alla linea 5. Avevano entrambi la stessa mansione, collaudatore di qualità, controllavano se il pezzo uscito dalla catena di montaggio era difettoso. «Sardo» gli disse, lo chiamavano così per via del cognome, «vai a casa, ti copro io lo straordinario» .
Pusceddu eseguì di corsa, per una volta che in quella fabbrica dimenticata da Dio e dagli uomini c’era un cambio disponibile, era meglio approfittarne. Mandò un urlo di saluto agli altri sei, che stavano in fondo ai macchinari, sovrastati da scintille e tuoni di fonderia. Gli tornò indietro una battutaccia, qualcosa del tipo vedi di riposarti, non darti troppo da fare, ma non è sicuro di ricordare bene. Fece una doccia veloce e tornò nel suo monolocale dietro piazza Statuto. Mangiò qualcosa, spense il cellulare e andò a letto. La sveglia suonò alle 9.15. Riaccese il telefono. Quattro messaggi. «Ma stai bene?» «Amore ti prego rispondi» . «Dio mio» . «Sono tutti morti» .
Accese la televisione. Capì subito. Represse un singhiozzo e corse alla Thyssen, alla fabbrica dei tedeschi che lo aveva assunto il 22 agosto 2001 dopo una lunga trafila di contratti a tempo determinato. Beppe era ancora vivo, gli dissero, ma aggiunsero che era meglio se moriva subito. De Masi, il gagno della squadra, il ragazzo che gli aveva fatto quel favore annunciato dalla solita manata, invece si arrese soltanto dopo 24 giorni pieni di un’agonia atroce e vuoti di ogni speranza. Pusceddu stringe la tazzina del caffè con entrambe le mani. Digrigna i denti come se li volesse consumare. È allora, dice, che gli è montata la rabbia che ogni tanto gli compare negli occhi neri, come la barba, i vestiti e l’umore che indossa in questa domenica di primavera. «Sapere di essere vivo al posto di un altro, non puoi capire come ci si sente» .
Esiste anche una giustizia sociale, importante quanto quella che viene dispensata nelle aule di tribunale. Pusceddu e gli altri come lui sentono di esserne esclusi, di pagare per la scelta di mantenere saldi i propri principi. I tanti che nelle ultime ore si sono affrettati a parlare di una sentenza esemplare, di svolta, forse dovrebbero prendersi a cuore le sorti di un gruppo di reduci che chiede solo di lavorare. Sarebbe il modo migliore per sanare la ferita collettiva che si è aperta quella notte di dicembre.
Sei anni dopo, il sopravvissuto della linea 5 fa parte della sporca dozzina. La definizione è sua, tutt’altro che ironica. Gli ultimi dodici ex operai Thyssen che non sono stati ancora ricollocati, quasi tutti uniti dalla decisione di costituirsi parte civile nel processo e dalla certezza di essere per questo discriminati nell’assegnazione di un posto di lavoro. «La macchia di carbone su un vestito bianco» dice Pusceddu. L’ultima partita sindacale giocata sulla loro pelle era finita in un pareggio. Il 27 dicembre 2010 l’azienda aveva pattuito altri sei mesi di cassa integrazione in deroga e l’inserimento di una clausola che salvaguardava il loro diritto a restare nel dibattimento. Il 30 giugno scatterà la mobilità, senza più ammortizzatori sociali.
La storia della Thyssen era brutta anche prima del rogo che uccise i sette colleghi di Pusceddu. Nel maggio 2007 era cominciata la marcia verso il ricollocamento dei lavoratori di una fabbrica ormai in chiusura.
Le tappe sono sempre state accidentate, dando l’impressione che anche dopo la tragedia non sia mai esistito un piano omogeneo di assorbimento. La multinazionale tedesca ha smistato molti operai nell’acciaieria gemella di Terni, dove vengono trattati come paria colpevoli di portar via il pane ai locali. Qualcuno è finito in Luxottica, per ritrovarsi in cassa integrazione pochi mesi dopo. Altri in società satellite, in Alenia o in aziende municipalizzate.
Alla fine, di quasi 400 che erano, è rimasta a casa la «sporca dozzina» . Dove solo un operaio su 12 non si è costituito parte civile. I reduci Thyssen parlano di discriminazione, circostanza negata con forza dal Comune di Torino. Ma i numeri sono quelli, e autorizzano il loro sospetto. La sentenza di venerdì ha riconosciuto 50.000 euro «per danno non patrimoniale» ai 41 operai che si sono costituiti parte civile. Regione, Provincia e Comune hanno ottenuto due milioni e mezzo di risarcimento. Usate quel denaro per trovarci un posto, dice Pusceddu. «Adesso che gli enti locali hanno i mezzi e le risorse necessarie, è solo una questione di volontà politica. Non ci devono abbandonare, da soli non ce la facciamo» . L’ultima frase viene pronunciata a capo chino, per celare lo sguardo umiliato che segna il volto di chi non può più definirsi lavoratore. «È una questione di decenza» .
Non è un appello, quello degli ultimi dodici operai della Thyssen. Non è neppure una proposta. È una richiesta d’aiuto, per far valere un diritto, che merita di essere accolta. L’aggettivo «esemplare» non deve essere riservato sempre e solo alle sentenze. Si accompagna bene anche ai gesti di umanità.
Marco Imarisio