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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

KARIMA, FIGLIA MIA, CHE VERGOGNA”

Mentre il Rubygate e relativo processo muovono la stampa di tutto il mondo, mentre Ruby/Karima continua a far parlare di sé («Mi hanno cacciato dalla discoteca Hollywood. Mi minacciano») con successive dichiarazioni di Lele Mora («È incinta»), in Sicilia un paese e una famiglia cercano di dimenticare.
Letojanni, dove Ruby/Karima ha vissuto appena arrivata in Italia, ha duemila abitanti in inverno, ventimila in estate, poco distante da Taormina, lunga spiaggia di sabbia, mare cristallino. Appena scoppiò il caso, Zahara detta Naima, la madre di Ruby/Karima, è sparita dal paese con i tre figli più piccoli, una femmina di sei, e due maschi di cinque e tre anni. Da poche settimane è tornata, ma non l’ha vista quasi nessuno. A prendere i bambini a scuola ci va sempre e solo il padre, Mohammed, un rapporto ostile con i giornalisti. Lo incontriamo all’uscita di scuola. Sta seduto su una scala un po’ in disparte dagli altri genitori con il figlio più piccolo, occhi grandi e bellissimi e che parla solo arabo. Mohammed el Mahroug è sbarbato di fresco, porta occhiali da vista, indossa una camicia azzurra stirata da poco, pantaloni grigi e un giubbotto di tessuto che ha visto tempi migliori. La frase magica che non lo fa inveire è: «Conosco Karima».
La testa ha uno scatto, mi fissa interdetto con un lampo di rabbia. Apre la bocca per metà priva di denti ed esclama:
«Karima?».
Sì.
«Con te parla?».
Ogni tanto la sento.
«Sua madre l’ha chiamata due giorni fa e anche oggi. Ma appena sente arabo attacca il telefono».
La mano destra tormenta il ginocchio sinistro che gli si è sfasciato molti anni fa e che ora lo costringe a zoppicare.
Come sta?
«Male. È uscita carne da osso. Non si aggiusta più. Fatico a lavorare. E poi vergogna, vergogna».
Naima come sta?
«Vergogna anche lei. Non vuole uscire di casa. Non vuole vedere nessuno».
Potrei venire io da voi.
«No, no. Là abitano tanti marocchini che sanno. Là tu non devi venire. Mia moglie non vuole nessuno. Tanta vergogna».
Il lavoro come va?
«Male. Tutti mi guardano e dicono: “Vedi, è lui, è quello il padre” e io sento tanta vergogna. E poi tanti problemi».
Quali?
«Mancano soldi».
Karima non ve ne manda?
«No. Mai dato soldi a noi. Karima si è dimenticata di noi. Tornare in Marocco non si può perché non c’è lavoro. E poi servirebbero cinquantamila euro per fare viaggio, comprare un camion per lavorare là. Però resta tanta vergogna. Scusa, devo andare».
La campanella è suonata, i bambini escono e fra loro c’è una bambina minuta, allegra, una giacchetta rosa e lunghi capelli ricci legati in una coda. Mohammed la prende per mano, la accompagna all’auto e parte guardandosi attorno diffidente.
In paese le voci su Ruby/Karima discordano. Le donne o si trincerano dietro un «Non so nulla» o non ne parlano bene. «Ne ha fatte tante. Furtarelli». «Non credo che il padre la picchiasse. E poi che cosa doveva fare con una che ne combinava di tutti i colori?».
Gli uomini sono più indulgenti. «Quanti panini le abbiamo comprato io e mia moglie. Aveva sempre fame», dice un taxista. Ma la testimonianza più forte è di un vigile.
«Ha fatto bene a scappare. Con il carattere ribelle che aveva, fosse rimasta qui avrebbe fatto la fine di quella pakistana ammazzata dal padre. Lo sappiamo bene noi che, dopo la segnalazione di alcune maestre, per un periodo la abbiamo accompagnata da casa a scuola per essere sicuri che seguisse le lezioni. Voleva farla sposare a un uomo di trent’anni più grande in Marocco, a dodici anni. Ha fatto bene a scappare».
I primi tempi Ruby/Karima andava a scuola a piedi, due chilometri all’andata e al ritorno. La famiglia Mahroug abita nella stessa casa di allora, in contrada San Filippo, estrema periferia del paese. La cerco. Mi incammino sul lungomare costeggiato da ristoranti e alberghi, oltrepasso la frondosa piazza Durante popolata di caffè e gelaterie, continuo sino in fondo al passeggio, imbocco via della Pace, una stradina tortuosa costeggiata dagli alti muri di ville, arrivo in contrada Silemi, che ha a sinistra un bosco di arbusti e a destra una decina di condomini per vacanze, vado fino alla fine della strada segnata dalla grande statua di un Cristo. Appena dietro, fra gli sterpi, c’è un sentiero sassoso. Lo imbocco, sbuco sul bordo di un canalone profondo, il torrente Lupo, sovrastato dal ponte della strada nazionale. Oltrepasso il torrente, giro a sinistra e proprio sotto il ponte vedo una casa malmessa con uno spiazzo davanti. Da un portoncino sta uscendo un meccanico che lavora qui e mi indica l’appartamento della famiglia el Mahroug. È all’ultimo piano, una striscia di stanze con davanti un grande terrazzo in parte coperto da tende rosse. Alla ringhiera sono appoggiati due tappeti. Il meccanico dice che Naima è in casa, il marito no. Salgo le scale, busso. Non risponde nessuno. Chiamo. Silenzio. Mohammed mi aveva detto che la moglie non parla italiano. Ma la vera ragione di questo silenzio è un’altra e si chiama vergogna.
Prima di reimmergermi fra gli sterpi mi giro a guardare la casa, il canalone, il ponte e penso: anche se non avessi avuto un padre violento, da qui sarei scappata pure io.