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 2011  marzo 14 Lunedì calendario

L’ITALIA SVELATA DAI CENSIMENTI


A San Vitaliano, due passi da Nola, il tempo si è fermato. In quel paese di 6.152 anime, sparso nell’immenso sistema urbano che è ormai la provincia di Napoli, dove i comuni si susseguono ormai senza più identità, ci sono le famiglie più numerose d’Italia. Quattro componenti ognuna, contro una media nazionale di 2,41: padre, madre e il 41% di un figlio. In centocinquant’anni la famiglia italiana si è ridotta della metà. Ovunque, tranne che a San Vitaliano. Nel 1861, in quelle che nel Regno d’Italia si chiamavano «Province napoletane» , le famiglie erano composte mediamente da 4,44 individui. E non erano le più numerose del Paese, contrariamente a quello che si potrebbe immaginare. In Lombardia si sfioravano i cinque componenti per nucleo familiare. In Romagna si arrivava a 5,22. In Toscana a 5,23 e in Umbria addirittura a 5,36. Un altro luogo comune destinato a essere sfatato, come quello, già messo in dubbio dagli studiosi Vittorio Daniele e Paolo Malanima, di un Sud più povero e arretrato del Centro Nord già nel momento in cui si fece l’Unità d’Italia? Certamente è pieno di sorprese il lungo viaggio che l’Associazione dei Comuni italiani ha compiuto per celebrare l’anniversario del secolo e mezzo del Paese. Un viaggio fissato in una pubblicazione dal titolo «1861-2011 L’Italia dei Comuni— 150 anni di Unità» dove si ripercorre la nostra storia fotogramma per fotogramma, attraverso i numeri. Napoli, per esempio. Nel 1861 le famiglie erano meno numerose che a Milano, o a Modena e Reggio Emilia. Ma Napoli era la città più grande d’Italia, con 447.065 abitanti. E il bello è che lo sarebbe rimasta per sessant’anni, fino a quando il censimento del 1931 non avrebbe certificato il sorpasso di Roma. Per più di mezzo secolo, dunque, l’unica vera metropoli del Paese è stata la capitale del Regno delle Due Sicilie. Le cui banche (il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia) hanno continuato fino al 1926 a battere la moneta nazionale. Da Napoli a Milano. Centocinquant’anni fa la capitale industriale d’Italia aveva meno di 200 mila abitanti. Ma mentre in un secolo e mezzo i napoletani sono poco più che raddoppiati, il numero dei residenti milanesi è cresciuto di sei volte e mezzo. Questo è avvenuto anche grazie alla sua espansione territoriale, se si pensa che la città di Milano vanta il maggior numero di annessioni di Comuni esistenti al 1861. Ben 29, da paesini come Cassina Triulza, 106 abitanti, fino a vere e proprie cittadine come Corpi Santi di Milano, 46.348 mila residenti, annessa al capoluogo nel 1873. L’apice dello sviluppo milanese è nei cinquant’anni che vanno dal 1901 al 1951. Curiosamente la Milano di oggi ha più o meno lo stesso numero di abitanti rispetto a sessant’anni fa: un milione 307.495 contro un milione 274.245. Mentre Roma ha aumentato nello stesso periodo da popolazione di 1,1 milioni di abitanti. E Napoli, al contrario, ha perduto residenti. Soltanto negli ultimi vent’anni se ne sono andati dal capoluogo campano in 100 mila. Il risveglio di un vecchio fantasma, quello dell’emigrazione, che riguarda tutto il Mezzogiorno. Fra il 1951 e il 2008 la popolazione del Sud si è ridotta di quattro milioni di persone. Nei primi anni Sessanta lasciavano il Meridione in 300 mila l’anno. Poi, alla fine degli anni Ottanta, sembrava finita. Invece, fra il 1997 e il 2008, se ne sono andati in 700 mila. «Nel solo 2008— scrivono gli studiosi Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano nel saggio "Ma il cielo è sempre più su"— il Sud ha perso oltre 122 mila residenti, trasferiti nelle regioni del Centro Nord, a fronte di un rientro di 60 mila persone: una perdita di popolazione tripla rispetto a quella degli anni Ottanta» . A questo si deve aggiungere il pendolarismo temporaneo: quello di 173 mila persone che nel solo 2008 sono emigrate senza cambiare residenza, che rendono «allarmante» la dinamica migratoria. Perché, è la tesi di Bianchi e Provenzano, «si tratta di circa 295 mila individui che legano la prospettiva di realizzazione professionale alla scelta di abbandonare il Mezzogiorno» . Come all’inizio degli anni Sessanta. Soltanto che mentre allora l’emigrazione era soprattutto dai paesi e dai piccoli centri, ora riguarda le grandi città. Nel 2006 sono andate via da Napoli 10 mila persone. Altre 2.700 da Palermo, 2000 da Bari, 1.300 da Caserta, 1.200 da Salerno. Anche se, di nuovo, «in alcuni piccoli comuni dei profondo Sud lo spopolamento raggiunge i livelli più alti dal dopoguerra» , dicono ancora Bianchi e Provenzano portando il caso di Riesi, in provincia di Caltanissetta. Che nel 2006 ha perso il 9,3%della popolazione. In 150 anni di storia l’Italia dei campanili è profondamente cambiata, pur rimanendo profondamente la stessa. Sono 1.396 i Comuni esistenti al 1861 (quando erano in tutto 7.720) scomparsi successivamente per soppressioni o fusioni. Quasi il 20%. Dopo Milano, è la città di Genova che ha registrato più annessioni di piccoli Comuni: 25, per oltre 120 mila abitanti. Il numero dei municipi si è poi dilatato fino a 9.129 nel 1921, quando del territorio italiano facevano parte anche l’Istria e Zara, per scendere di nuovo a 7.810 nel 1951 e risalire a 8.094 oggi. Quando il Comune più piccolo, Pedesina, in provincia di Sondrio, con i suoi 33 abitanti è una volta e mezzo più piccolo del più piccolo Comune italiano del 1861: Baratonia, in Piemonte. Dice il segretario generale dell’Anci, Angelo Rughetti: «La formula italiana ha fatto sì che i nostri Comuni sviluppassero caratteristiche uniche in Europa, pur nel complesso delle straordinarie diversità esistenti. E appare evidente che questi enti sono alla base delle radici istituzionali della nazione che andiamo a festeggiare il 17 marzo. La fotografia che Anci ha provato a sviluppare dimostra come i Comuni da sempre siano stati luoghi di aggregazione offrendo ai cittadini possibilità di partecipazione e consapevolezza dei propri diritti e doveri. Proprio alla luce delle recenti politiche federaliste lo Stato dovrebbe sempre più puntare su questo livello istituzionale che ha dato prova di affidabilità e capacità di innovazione. Degli 8.094 Comuni italiani ben 5.709 enti sono al di sotto dei 5.000 abitanti, circa il 70% del totale e rappresentano un sesto dei residenti. È evidente che il Comune è l’ente più prossimo ai cittadini, il primo livello istituzionale dello Stato con cui ogni cittadino può interloquire» . Sono sopravvissuti, i piccoli Comuni, anche alla rivoluzione della struttura sociale. Un Paese che è diventato molto più ricco, ma più vecchio e con famiglie meno numerose. Nel 1901, quando l’Anci è stata fondata, l’età media degli italiani era di 28 anni e 4 mesi, quasi 15 anni inferiore a quella di oggi. Da poco la popolazione femminile aveva superato quella maschile, a causa dell’emigrazione, che dal 1887 in poi avrebbe assunto le proporzioni di un esodo biblico. Da allora in Italia le donne sono state sempre più numerose degli uomini. Le famiglie composte da una sola persona erano l’ 8,8% nel 1901 e sono il 28,1% oggi. C’erano l’automobile e l’elettricità. Per non parlare del telefono. In un Paese nel quale ancora appena il 51,5% degli abitanti sapeva leggere, esistevano già cento posti telefonici pubblici. Una stagione, quella della cabina telefonica, destinata a durare poco più di un secolo se è vero che l’ultimo esemplare scomparirà dalle nostre strade nel 2015. Il Prodotto interno lordo pro capite era pari al controvalore attuale di 1.600 euro, contro i 25.000 circa di oggi. Ma l’agricoltura assorbiva ancora il 37% della forza lavoro e la pubblica amministrazione era magrissima. Gli impiegati erano 178.241, senza contare gli insegnanti. Le donne erano una rarità: 5.064 appena. Oggi la forza lavoro corrispondente negli apparati pubblici supera i due milioni e mezzo. E le donne rappresentano il 55%. Per pubblica amministrazione s’intendevano anche gli uffici delle colonie. Nel 1921 vivevano in quelle africane 22.183 italiani, dei quali ben il 29,8% provenienti dalla sola Sicilia. E giovani: il 57% aveva fra 21 e 40 anni di età. Gli abbonati al telefono erano 117 mila e il 9,7%dei cittadini aveva una proprietà immobiliare. Oggi circa l’ 80%delle famiglie vive in una casa di proprietà. Quelle in affitto non sono che il 18,9% del totale. Nel 1946, quando nei Comuni tornò il sindaco al posto della figura fascista del podestà, le famiglie in affitto erano invece il 48,3%. Nel Paese diventato repubblicano circolavano meno di 150 mila automobili, che però sarebbero state destinate ben presto a colmare ogni spazio vuoto. Nel 1951 erano già 425.283. Niente rispetto agli oltre 36 milioni di oggi, ma era comunque un succulento antipasto di quello che sarebbe stato il boom economico. Nasceva la Cassa del Mezzogiorno, nel tentativo di ridurre il divario fra il Nord e il Sud, cresciuto a dismisura durante il fascismo. Si affermava la scuola di massa, arrivava la televisione. Cominciava, insomma, la modernizzazione. Più di mezzo secolo di crescita praticamente ininterrotta, che ci ha fatti sicuramente più ricchi e sani. Difficile dire se anche più felici. Oltre il 7% del nostro territorio è cementificato: in testa c’è la Lombardia, con più del 14%. I laureati italiani sono metà che nel resto d’Europa. La disoccupazione giovanile è al 30%. Anziché ridursi, le differenze fra Sud e Nord si sono accentuate… Molta strada c’è ancora da fare.

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1861
Le prime elezioni per 443 deputati del Regno si tengono domenica. 27 gennaio del 1861. Ma è un voto molto diverso da quello di oggi. L’Italia è un Paese molto più giovane (l’età media è di 27 anni) e più piccolo. Manca il Nord Est, ancora austriaco, e quasi tutto il Lazio, rimasto al Papa. La popolazione è di 27 milioni 777.334 abitanti: per votare bisogna essere maschi, avere almeno 25 anni, saper leggere e scrivere e aver pagato tasse per almeno 40 lire in un anno (quasi 180 euro di oggi). Tutte condizioni che, in una nazione povera e nella quale l’analfabetismo oscilla fra il 42,5%del Piemonte e l’ 88%della Basilicata, fanno una selezione durissima. Gli aventi diritto al voto sono infatti appena 418.696, l’ 1,9%della popolazione. Ma a votare vanno soltanto in 239.583, poco più dell’ 1%degli italiani.

1871
Siamo ancora un Paese con più uomini che donne, come il Belgio e gli Stati Uniti, reduci dalla guerra civile iniziata nel 1861 e che per quattro anni ha insanguinato l’America. Nell’Impero austroungarico, in Francia e Gran Bretagna la maggioranza della popolazione è invece femminile. E mentre gli analfabeti continuano a essere il 67,5%della popolazione con oltre dieci anni d’età, negli Stati Uniti sono il 20,1%e in Prussia appena il 13,6%. L’Italia resta poverissima. Il reddito procapite è appena di 316 lire, cifra corrispondente a 1.343 euro attuali che oggi ci collocherebbe sotto la Tanzania e sopra il Burkina Faso. In compenso, i conti pubblici sono in attivo. Nel 1871 il bilancio del Regno d’Italia registra un avanzo di 75 milioni di lire, pari a circa 300 milioni di euro.

1901
L’emigrazione assume dimensioni imponenti. Nei primi dieci anni del nuovo secolo se ne vanno dall’Italia in media 600 mila persone ogni anno. Gli Stati Uniti d’America rappresentano la destinazione del 40%degli emigrati. Gli stranieri in Italia, invece, nel 1901 sono poco più di 60 mila: esattamente 61.606. Ce ne sono 190 ogni centomila abitanti. In Francia se ne contano 2.748 e in Germania 1.381. La regione italiana dove ci sono più cittadini provenienti dall’estero è la Liguria, seguita dalla Lombardia e dalla provincia di Roma. Gli stranieri ufficialmente residenti nel nostro Paese al primo gennaio 2010 erano 4.235.059, vale a dire 7.019 ogni centomila abitanti: 37 volte più che nel 1901, ma ancora molti meno, in rapporto alla popolazione, rispetto a quanti ne avesse all’inizio del secolo scorso la Svizzera. Dove per ogni centomila cittadini elvetici ce n’erano 11.532 stranieri.

1921
Alla vigilia del fascismo il Prodotto interno lordo italiano ha raggiunto un livello paragonabile al 5% di quello del 2009. Nei primi sessant’anni la crescita reale della nostra economia è stata decisamente modesta: il Pil è salito del 50% circa, ovvero meno dell’ 1%in media l’anno. Nel 1921 si contano in tutto il Regno d’Italia 34.138 automobili, meno di una (0,85) per ogni mille abitanti, che nel frattempo, grazie anche all’espansione territoriale seguita alla prima guerra mondiale, ha superato i 38 milioni. Nel 2009 le vetture circolanti nel nostro Paese avevano superato i 36 milioni, cioè oltre 600 per ogni mille abitanti: il rapporto più elevato del mondo con le uniche eccezioni del Principato di Monaco e dell’Islanda. La città italiana più congestionata risulta Roma, con oltre 700 auto circolanti per ogni mille abitanti.

1951
Al posto dei podestà sono da cinque anni tornati i sindaci. Nel 1946, finalmente, anche le donne hanno avuto diritto al voto e hanno potuto dire la loro al referendum fra monarchia e repubblica. Il territorio italiano, a causa della sconfitta nella seconda guerra mondiale, si è rimpicciolito ma la popolazione è cresciuta fino a superare i 47 milioni e mezzo. Si prepara il boom economico. L’analfabetismo è sceso al 13% della popolazione, ma il numero dei laureati è ancora modestissimo. Arrivano a malapena all’ 1% della popolazione. Oggi sono oltre dieci volte di più. Ma in Italia i laureati sono ancora metà che nel resto dell’Unione europea: 11,6% dei maschi di età compresa fra 25 e 64 anni, contro il 23,2%. Più istruite degli uomini sono le donne italiane, il 12,8% delle quali è in possesso della laurea.

2011
In questi 150 anni siamo diventati più ricchi: ognuno di noi può contare mediamente su un reddito pari a quello che nel 1861 avevano 20 italiani. Ma siamo anche più anziani. I più anziani d’Europa. Come dimostra il numero delle persone con oltre 100 anni di età: 14.900. La nostra età media è di 43 anni, e rispetto a un secolo e mezzo fa è aumentata del 61,5%. Il 20% della popolazione ha più di 65 anni, contro il 4% nel 1861 e l’ 8% nel 1951. I giovani con meno di 15 anni di età raggiungono a malapena il 14%, mentre 150 anni fa erano oltre un terzo degli italiani e nel 1951 rappresentavano più di un quarto della popolazione. Nel 2011 l’indice di vecchiaia ha toccato 143,4. Significa che per ogni 100 giovani ci sono nel nostro Paese 143,4 anziani. Con una popolazione attiva del 52%: valore fra i più bassi d’Europa.