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 2010  gennaio 15 Venerdì calendario

Analfabeta, giovane e quasi contenta - Sulla carta d’identità al posto della firma c’è una croce

Analfabeta, giovane e quasi contenta - Sulla carta d’identità al posto della firma c’è una croce. I moduli, che siano bollettini postali o autocertificazioni, non li compila mai. Così come non si azzarda a percorrere strade che non conosce: i cartelli non sa leggerli. «Quando mi muovo per strada mi oriento con i simboli, guardo le immagini, le case, i colori. Al supermercato non perdo tempo con le etichette, vado a memoria tra gli scaffali e riconosco le confezioni. A mia figlia, che ha quindici anni e va a scuola, non ho mai firmato una giustificazione». Chi parla è una giovane donna, italiana, con un lavoro regolare, uno stipendio discreto alla fine di ogni mese. si chiama Paola, ha trentacinque anni, viene dalla Sicilia ma abita a Terni,e non ha mai imparato né a leggere né a scrivere. «Faccio la cameriera - racconta - il menù non ho bisogno di leggerlo, lo imparo a memoria. A mente tengo pure le ordinazioni dei clienti: non sbaglio mai un colpo, sono bravissima». Paola dice di non aver pensato neppure una volta di frequentare un corso per adulti: «Non ci starei con gli orari: con tutto quel che ho da fare figuriamoci se ho tempo di andare a scuola - taglia corto - Come si dice da noi, chi nasce libero non vada a cercar catene». E aggiunge: «A che servirebbero poi, i corsi? Me la cavo benissimo così anche senza saper leggere e scrivere. Quelle come me, in Sicilia, le chiamano le figlie della gallina nera. Sappiamo fin da piccole che che la nostra vita è tutta in salita...». Quando parla, Paola si spiega bene. Anche se non sa come si scrive il suo nome e spesso abbandona l’italiano per rifugiarsi nel dialetto della sua terra: «La Sicilia non è soltanto l’isola della mafia, come dicono al telegiornale. Bisognerebbe ripeterlo che la Sicilia è bella», si entusiasma mentre tagliuzza le arance, quelle rosse e un po’ amare, per farne un’insalata con le olive e la cipolla. Nonostante faccia di tutto per apparire «integrata» e felice, l’analfabetismo, però, le pesa addosso come l’ombra d’un peccato, più di quanto non voglia ammettere: «Non amo socializzare, ho pochi amici. Non mi va di dire agli altri cosa sono o non sono capace di fare. La maggior parte del mio tempo lo passo a casa: mi occupo delle faccende domestiche e mi diverto a cucinare». Un’autodidatta in questo, come in altri campi: Paola non può certo seguire, passo dopo passo, le operazioni scritte in un ricettario. Se non ha frequentato alcuna scuola, da bambina e poi da ragazza, non è per mancanza di volontà. «Quando sono nata c’era già l’obbligo scolastico, il dovere dell’istruzione, ma io sono figlia di emigranti, quelli con la valigia di cartone, tutta la vita e un pezzo di paese stipati là dentro. Per i miei genitori andare a scuola era un capriccio prima ancora che un diritto, una cosa inutile. Loro la pensavano così, e io ero troppo piccola per dire la mia». Una vita fatta di rinunce: la prima attorno ai cinque anni quando ha fatto a meno della cartella, dei compagni di scuola e dei libri. E le altre in seguito. Una, tra queste, anche il giorno delle nozze: «Non ho aperto il libretto della Messa. I canti li conoscevo uno a uno, e il giuramento di fedeltà l’ho imparato a memoria» dice Paola mentre con l’indice si tocca la fronte. Il segreto di Paola, oltre alla forza e all’abilità con le quali ha affrontato gli ostacoli, sembra stare tutto qua, nella sua immensa capacità di tenere fissi, in testa, nomi, fatti e persone: «Tutto sommato, a me è andata bene così, sono fortunata, ricordo in fretta e imparo senza fatica - spiega - ma mia figlia no, memoria o non memoria, deve continuare a studiare, finire le superiori». Anni sui libri che, visti i tempi, forse non le cambieranno granché la vita, ma che, secondo la madre, le risparmieranno il sentimento della vergogna. «Non voglio che a mia figlia succeda quello che è successo a me. Io sono forte, faccio un’espressione dura e vado avanti, ma per il fatto di non sapere né leggere né scrivere provo un forte imbarazzo. Non mi perdonerei mai se dovesse sentire l’impulso di correre a nascondersi quando qualcuno le si avvicina per chiedere una semplice informazione. Oppure se fosse lei stessa a voler conoscere, sapere di più, ma con la consapevolezza di non poterlo fare». Poi aggiunge: «Nel mio paese si dice che la miglior parola è quella che non si dice. Non quella che non si legge».