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 2010  febbraio 13 Sabato calendario

MAX FRISCH, HOMO (FABER) HELVETICUS

Ricorre quest’anno un doppio anniversario per lo scrittore svizzero Max Frisch (tra i massimi della letteratura elvetica del ‘900 insieme al suo amico-nemico di sempre Friedrich Dürrenmatt). Si festeggia infatti, non solo a Zurigo – sua città natale – ma un po’ dappertutto (anche a New York, dove ha vissuto per una periodo della sua vita) un centennale (era nato nel 1911) e un ventennale (è morto nel 1991). Anche Roma, a ben pensarci, dovrebbe sforzarsi a ricordarlo in quest’occasione, perché Frisch visse a Roma dal 1959 al 1965 (in via Margutta), dove si consumò il suo difficile e complicato rapporto sentimentale con la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann che, giovanissima, morì appena otto anni dopo in via Bocca di Leone a causa di una sigaretta che incendiò il suo appartamento. Del suo difficile rapporto con la poetessa carinziana, Frisch diceva di essere sì, probabilmente, troppo svizzero (troppo razionale, cioè), ma di non capire come una persona potesse svegliarsi mai prima di mezzogiorno, e non rispondere per settimane alle lettere ricevute; al contrario, l’amore per Frisch, che s’interruppe nel 1963, fu per la Bachmann un dolore dal quale Ingeborg non sarebbe mai guarita» (Werner Henze).
Frisch fu, prima di diventare uno scrittore ancora immerso nel clima antimoderno della letteratura germanica del tempo (anni ’30), un architetto (era figlio di architetto), e un giornalista (Neue Zürcher Zeitung). Le opere che però gli valsero le prime attenzioni della critica, ancor prima di conoscere Friedrich Dürrenmatt, nel 1947, furono Fogli dal tascapane (1939, disponibile nelle edizioni Casagrande) e Sono, ovvero un viaggio a Pechino (1945, disponibile da Marcos y Marcos). Il primo libro importante di Frisch (Fogli dal tascapane, appunto) si lega curiosamente al suo ultimo, Svizzera senza esercito? Una chiacchierata rituale (Casagrande, 1989): due libri sull’esercito svizzero e sulla guerra visti dal punto di vista della Svizzera, due temi cruciali della narrativa e della pubblicistica politica di Frisch. Nel 1939 e nel ’40, durante la mobilitazione elvetica in previsione di una possibile invasione nazifascista, lo scrittore zurighese fu chiamato ad arruolarsi, ma comprese immediatamente la condizione surreale e un po’ vile di un popolo che non voleva sporcarsi le mani, e che costruiva la propria sicurezza (Sicherheit) e il proprio benessere tirandosi fuori dalle beghe del mondo (scrisse nel suo ultimo libretto: «In una clinica di lusso, un mio connazionale mi rivolge la parola e mi chiede che cosa ne penso dell’adesione della Svizzera all’ONU. Non parlo volentieri quando sono in sauna. Un’adesione all’ONU, mi fa lui, non ci apporta nessun vantaggio! E anche il nostro popolo la pensa così. Tremendo. L’idea che possiamo dare il nostro apporto è un’idea non svizzera»).
Il tema del filisteismo e delle complicità filonaziste e antisemite della Svizzera furono ampiamente affrontate da Frisch, per esempio nel dramma Andorra (1961); ma costante fu anche il suo impegno per un’apertura della chiusa mentalità svizzera, tanto che nel 1965, quando centinaia di migliaia di italiani, soprattutto meridionali, affollavano i cantieri e le periferie delle città svizzere, scrisse un articolo memorabile, e ancora molto citato, intitolato: «Cercavamo delle braccia, e sono arrivati degli uomini».
La vera fama internazionale di Frisch, comunque, gli venne dal teatro (tra le opere rappresentate in ogni dove, oltre Andorra, ricordiamo almeno Don Giovanni o l’amore per la geometria (1953), Omobono e gli incendiari (1958), Biografia (1968) e Tryptichon (1978). E’ un teatro, quello di Frisch, demistificante (Brecht) e grottesco (Ionesco), spesso costruito intorno al tema a lui assai caro dell’identità fluttuante e doppia (tema di alcuni suoi romanzi di successo, come Stiller, pubblicato nel 1954, e ora in Mondadori, e Il mio nome sia Gatenbein, pubblicato nel 1964, e disponibile nelle edizioni Feltrinelli).
Ma il vertice assoluto della sua narrativa lo si ha nel 1957 con la pubblicazione di Homo faber (Feltrinelli), vero e proprio capolavoro del ‘900. In quel romanzo Max Frisch raccontava il viaggio di Walter Faber, un cinico e distaccato tecnico in aiuto ai paesi emergenti che, da New York, è diretto in Sudamerica. Il romanzo è una catena di eventi casuali e inesorabili: Faber fa di tutto per perdere l’aereo, ma non ci riesce, poi, una volta presolo, l’aereo fa un atterraggio d’emergenza in un deserto miasmatico e torrido, dopo il quale Faber incontra Sabeth, una giovane ragazza «con la coda di cavallo bionda» di cui s’innamora, dopodiché scopre tardivamente l’incesto (Sabeth è sua figlia), e fa un viaggio sentimentale per l’Italia fino ad arrivare in Grecia, dalla prima moglie (Hanna, madre della ragazza), dove Sabeth viene morsa da un serpente, e dove purtroppo muore, facendo concludere il romanzo con questa terribile sentenza: «Hanna ha sempre saputo che sua figlia l’avrebbe abbandonata un giorno; ma neanche Hanna ha potuto immaginarsi che Sabeth durante questo viaggio avrebbe incontrato proprio suo padre, che distrugge tutto».
Da campione del razionalismo e della logica (Walter Faber odia i sentimentalismi e i sogni), nel volgere di poche mesi vede sgretolarsi il suo castello razionalista sotto i colpi di un oscuro fato che fa precipitare la sua vita moderna e ipertecnologica in un fuoco antico da tragedia greca. In nessun romanzo come in questo Frisch mostra tutta la sua inquietudine umanistica, tutto il suo lento e inevitabile scivolare da un razionalismo freddo e raziocinante verso un crollo emotivo e poetico, ai limiti del melodramma (citiamo anche, in questa direzione, L’uomo dell’Olocene, del 1979, in Einaudi, storia di una vecchiaia frantumata e frammentaria, in cui il vecchio Geiser tenta di accettare la vecchiaia all’ingrosso e di rifiutarla al dettaglio, e Montauk, del 1975, sempre in Einaudi, romanzo del rifiuto della vecchiaia per mezzo di un fuoco amoroso).
Sono anche da citare, per una completa bibliografia frischiana, l’ironico Guglielmo Tell per la scuola (del 1971, in Einaudi) e la serie dei Tagebuch (diari), tutti pubblicati da Feltrinelli. Ma un sia pur sommario ritratto di Max Frisch non può non terminare con un accenno a quel rapporto tra dioscuri che fu l’amicizia Frisch- Dürrenmatt, che visse una lunga fase di silenzio e di inimicizia (scrisse Frisch al suo amico-nemico nel 1969: «Tu hai bisogno di gente che ti sia ciecamente devota»; e ancora, malignamente: «Chi ti dice questo non è un tuo nemico; lo è soltanto chi lo dice alle spalle. E sono in tanti»). Dopo anni di amicizia, ci fu dunque la rottura, e per vent’anni i dioscuri non si scrissero, se non pochissime volte, né si parlarono. L’ultima lettera la scrisse Dürrenmatt da Neuchâtel nel 1986, e suona come un testamento di civiltà per entrambi (il carteggio, intitolato Corrispondenza, l’ha pubblicato Casagrande): «Caro Max, per te furono un problema, un tempo, i miei dieci anni di meno. Ora non ha più nessuna importanza. L’ultimo tratto in discesa che dobbiamo ancora percorrere e che finirà nel nulla, è più o meno della stessa lunghezza. Ora che siamo entrambi degli anziani scrittori – l’ipotesi che potesse accadere un giorno, non l’avevo mai presa in considerazione – non so se ci dobbiamo fare le condoglianze o le congratulazioni. Comunque sia, ci siamo allontanati in valorosa amicizia. Io ti ho ammirato per molti aspetti, tu per molti aspetto mi hai stupito e poi ci siamo anche reciprocamente feriti, entrambi. A ciascuno le sue cicatrici. Scrivo queste righe senza nostalgia. […] . Probabilmente era destino che ci allontanassimo l’uno dall’altro, senza che con ciò io voglia enunciare una dottrina della predestinazione in campo storico letterario. Tuo Dürrenmatt».