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 2011  febbraio 12 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 14 FEBBRAIO 2011

«Sono pochi i momenti della vita in cui possiamo essere testimoni della storia, oggi è uno di questi. In quel che accade al Cairo c’è un’eco di Gandhi, e c’è un’eco del Muro di Berlino» ha detto venerdì il presidente degli Stati Uniti Barack Obama dopo le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak. Molte cose però possono ancora girare storte. Federico Rampini: «Il Cairo fa fuori un despota per consegnarsi a quella che in altre circostanze sarebbe definita una “giunta golpista”. Obama difende la soluzione transitoria, l’unica a portata di mano. E fa quindi un’ampia apertura di credito: “I militari - dice - sono dei patrioti, non hanno sparato contro i loro cittadini. Oggi hanno un ruolo di custode della transizione”». [1]

I timori di una possibile svolta islamica potrebbero aver distolto lo sguardo americano dal vero problema dell’Egitto, ovvero la dittatura militare (tutti e quattro i presidenti dal colpo di Stato anti-monarchico del 1952 sono emersi dalle forze armate). Fareed Zakaria: «Molti osservatori hanno tracciato analogie con la Turchia, dove le forze armate hanno svolto un ruolo cruciale nella modernizzazione del Paese. Tuttavia, se i militari in Turchia hanno ceduto a fatica il potere, ciò è stato solo grazie alle costanti pressioni dell’Unione europea volte a indebolire il loro ruolo in politica. Il pericolo è che l’Egitto si trasformi non nella Turchia, bensì nel Pakistan, una democrazia di facciata dove il vero potere è in pugno ai generali che agiscono dietro le quinte». [2]

Il colpo di scena dell’uscita di Mubarak - poche ore dopo il discorso alla nazione che indicava tutt’altra intenzione - alimenta i sospetti sul ruolo degli Stati Uniti. Rampini: «Appare in una luce diversa l’apparente “figuraccia” che aveva fatto il giorno prima Leon Panetta, l’uomo di fiducia che Obama ha messo a capo della Cia. Parlando al Congresso giovedì Panetta aveva dato per certo che Mubarak la sera stessa avrebbe annunciato le proprie dimissioni. La Cia era all’oscuro delle vere intenzioni del raìs, oppure conosceva così bene i piani dei militari da poter già anticipare l’esito finale?». [1]

«Il sogno di un Egitto democratico quasi certamente si trasformerà in un incubo» ha scritto Richard Cohen sul Washington Post. Zakaria: «Leon Wieseltier è convinto che gli islamisti tenteranno un colpo di mano in stile bolscevico. Tutte queste ipotesi potrebbero effettivamente realizzarsi, ancorché vi siano finora ben pochi elementi per giustificare scenari apocalittici. Le proteste egiziane sono di stampo laico e i Fratelli musulmani rappresentano solo uno dei tanti gruppi che vi hanno aderito, condividendo le istanze unanimi della piazza, che riguardano democrazia e diritti umani. L’Egitto non è l’Iran, sotto molti punti di vista essenziali. I suoi religiosi sunniti non svolgono alcun ruolo gerarchico o politico, come accade invece in Iran». [2]

Il rischio che l’Egitto finisca nel caos totale non è ancora stato eliminato. [2] Gian Micalessin: «Trascinare nel caos e nell’ingovernabilità l’Egitto significa inevitabilmente far traballare anche Giordania, Yemen e Arabia Saudita. E regalare inaspettate occasione a tutti i gruppi fondamentalisti, dai Fratelli Musulmani ai terroristi di Al Qaida. In Egitto l’intero Sinai, ovvero la sponda orientale del canale di Suez, è tormentata da una rivolta beduina su cui s’inserisce il contagio di formazioni qaidiste e l’infiltrazione dei gruppi che garantiscono il contrabbando di armi iraniane provenienti dal Sudan e destinate a Hamas. Non assicurare più il controllo di quella vitale penisola significa costringere Israele a rispedire l’esercito a Gaza per assumere il pieno controllo della frontiera egiziana». [3]

A sud dell’Arabia Saudita la caduta di uno Yemen già infiltrato da Al Qaida e tormentato dalla rivolta delle tribù sciite filo iraniane finirebbe con il rendere più instabile anche Riad. Micalessin: «Per garantirsi una piena e totale egemonia regionale Teheran dovrà a quel punto, soltanto accentuare le pressioni su un’Irak già sfuggito di mano all’amministrazione Obama. Un Irak dove da mesi Moqtada Sadr e le altre formazioni sciite alleate di Teheran condizionano l’esecutivo del premier Nuri Maliki. Una volta assunto il pieno controllo dell’asse che dall’Irak attraversa la Siria e il Libano di Hezbollah per arrivare al confine settentrionale d’Israele, Teheran dovrà inevitabilmente affrontare la resa dei conti con lo Stato ebraico. E per il Medio Oriente sarà la vera apocalisse». [3]

In un mondo in tripudio per la defenestrazione di Mubarak, Israele fa eccezione. Tra i più pessimisti, l’ex ministro laburista Benyamin Ben Eliezer che giovedì ha avuto un’ultima conversazione telefonica con Mubarak, suo amico personale. Aldo Baquis: «Mubarak gli ha detto che la regione è travolta da un terremoto e che “la valanga delle rivolte popolari non si fermerà in Egitto”. In Medio Oriente ci sarà dunque più spazio per le forze radicali ed islamiche, ha previsto ancora Mubarak: una analisi condivisa anche dai dirigenti israeliani. E come loro, anche Mubarak (secondo Ben Eliezer) ha espresso una grandissima delusione per il ruolo svolto nella vicenda da Barack Obama. Gli Stati Uniti vorrebbero seminare democrazia, ma raccoglieranno Islam radicale, hanno convenuto i due vecchi amici al telefono». [4]

Uno dei più ascoltati analisti egiziani, Emad Gad del “Centro Al-Ahram per gli studi politici e strategici”, sostiene che il «periodo di transizione alla democrazia» in Egitto potrebbe durare «uno o due anni». A suo modo di vedere, per prima cosa bisognerebbe rinviare le elezioni presidenziali del prossimo settembre: «Non possiamo avere elezioni libere domani. L’unico movimento politico forte è la Fratellanza musulmana. La democrazia non si basa solo sulle elezioni libere. Servono l’uguaglianza, il pluralismo, la trasparenza, la rappresentanza popolare. Abbiamo bisogno di due o tre anni per creare un sistema politico civile, oggi abbiamo soltanto caricature di partiti politici». [5]

In Egitto non c’è Costituzione, non c’è governo, non c’è Assemblea del Popolo. [5] Michael Walzer, direttore della rivista liberal “Dissent” e sociologo dell’ateneo di Princeton: «Trent’anni di Mubarak hanno privato l’Egitto di una società civile. Prima di andare alle urne per le presidenziali bisogna ricostruirla. Servono sindacati indipendenti, partiti politici, ong, associazioni di volontari e regole per tutelare la libertà di espressione e di assemblea che al momento non esistono. Votare senza tutto ciò è pericoloso». [6]

Fondato nel 1978 da Anwar Sadat, diventato lo strumento di controllo elettorale che ha permesso a Mubarak e ai suoi fedeli di restare al potere, il partito Nazionale Democratico potrebbe sparire dal Paese che ha dominato per oltre trent’anni. [7] L’unica altra formazione politica egiziana organizzata sono i Fratelli Musulmani, che secondo gli esperti valgono il 15-20% dei voti. Alberto Negri: «Sono fuorilegge dal 1954 e sperano che questa sia la volta buona per entrare nella legalità. Si muoveranno con cautela, sanno di essere gli osservati speciali dell’Occidente. Bisogna dargli credito almeno su un punto: quando dicono che questa non è stata la rivolta degli islamici ma di tutto un popolo». [8] Gad: «Io non penso che la nuova Costituzione permetterà l’esistenza di partiti politici religiosi, altrimenti dovranno consentire anche ai copti di formarli, e il Paese rischia di risultare diviso». [5]

Quando la storia si muove, è difficile prevedere dove andrà. [9] Tunisia ed Egitto hanno dato l’esempio, il mondo arabo forse seguirà. [8] Giampaolo Calchi Novati: «Se l’effetto “domino” dovesse andare avanti i punti critici sono l’Arabia Saudita e la Palestina, non necessariamente con la ripetizione della stessa sindrome, ma con effetti che saranno ancora più vasti». [10] Sarebbe però un errore vedere il Medio Oriente come una serie di tessere del domino che stanno cadendo. Robert Satloff, direttore del Washington Institute: «Il contesto domestico di ciascun Paese è il fattore dominante che determina la stabilità o l’instabilità di un particolare regime». Claudio Gallo: «Una cosa unifica tutte le crisi arabe al di là delle contingenze: l’intreccio perverso di crescita demografica e crisi economica». [11]

L’ultimo numero dell’Economist ha calcolato il rischio vulnerabilità dei paesi della zona. Giorgio Dell’Arti: «Incrociando l’indice di giovinezza della popolazione (un fattore storicamente destabilizzante), il numero di anni in cui il dittatore locale è al potere, il livello di corruzione, il tasso di democrazia, il reddito medio eccetera, si vede che le percentuali di una rivoluzione sono l’ 83% in Yemen, il 65% in Libia, il 64 in Siria, il 59 in Oman, il 57 in Arabia Saudita, il 50 in Algeria, il 45 in Giordania, il 42 in Marocco, il 38 in Bahrein, il 36 in Libano, il 24 negli Emirati». [12]

Un indice del Sole 24 Ore in collaborazione con la Sace (l’Agenzia di Credito all’Esportazione che assume in assicurazione e/o in riassicurazione i rischi a cui sono esposte le aziende italiane) calcola la possibilità che la crisi economica sfoci in una rivolta di piazza (scala da 1 a 10, dove 10 è il rischio massimo). I parametri considerati sono otto: violenza politica, porzione di reddito che le famiglie destinano all’acquisto di generi alimentari, inflazione, tasso di occupazione giovanile, utilizzo di Internet, indice di sviluppo umano (accesso a servizi sociali, alla sanità ecc.), indice Moody’s di efficienza del governo, tasso di corruzione. Risultati: Siria 6,1, Algeria 6, Giordania 4,5 (il record mondiale è della Nigeria, 9,2, seguita dal Pakistan, 7). [13]

Questa è la storia, un nuovo ciclo si apre. Khaled Fouad Allam: «Ma quando arriva la democrazia iniziano altri problemi, molto più complessi. Nel sistema autoritario è tutto più semplice: basta obbedire, stare zitti, fare finta di niente; il silenzio. La democrazia è tutt’altra cosa. Non è soltanto l’alternanza del potere. Significa toccare i problemi di fondo, e ce ne sono tanti nel mondo arabo: in primis la questione delle minoranze religiose - ricordo ad esempio che in Egitto un arabo cristiano non può insegnare l’arabo perché è la lingua sacra, quella della rivelazione coranica - e la questione della donna - una donna non può essere magistrato perché non può giudicare un uomo. Gli arabi lo sanno: democrazia significa libertà, e libertà significa eguaglianza, dunque dare all’altro la stessa libertà di cui io usufruisco. Prevedo che ci saranno lotte difficili e dure su questi punti». [14]

Note (tutte le notizie sono tratte dai giornali del 12/2): [1] Federico Rampini, la Repubblica; [2] Fareed Zakaria, Corriere della Sera; [3] Gian Micalessin, Il Giornale; [4] Aldo Baquis, La Stampa; [5] Viviana Mazza, Corriere della Sera; [6] Maurizio Molinari, La Stampa; [7] D. F., Corriere della Sera; [8] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore; [9] Franco Venturini, Corriere della Sera; [10] Giampaolo Calchi Novati, il manifesto; [11] Claudio Gallo, La Stampa; [12] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport; [13] Il Sole 24/Ore; [14] Khaled Fouad Allam, Il Sole 24 Ore.