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 2011  febbraio 12 Sabato calendario

I TRENT´ANNI DEL FARAONE

In un famoso repertorio che negli anni tra i Settanta e i Novanta venne consultato assiduamente dai giornalisti che s´occupavano delle crisi mediorientali, il Political dictionary of the Middle East, il nome di Hosni Mubarak non c´è. Il libro è del ‘72: Mubarak era al tempo già comandante dell´aviazione egiziana, e tre anni più tardi Sadat lo avrebbe fatto vice-presidente. Ma gli specialisti che misero mano a quell´ottimo libro ignorarono il nome del generale. Né la cosa deve meravigliare.
Dopo la rivolta del ‘52, la caduta della monarchia e la presa del potere da parte dei "Liberi ufficiali", l´Egitto aveva avuto infatti tre leader in uniforme di eccezionale carisma. Tre uomini di grande immagine. Mentre il generale Mubarak, col suo sguardo diffidente, il naso a proboscide, il fisico atticciato, proiettava un´immagine slavata, scostante, insomma mediocre.
Dei suoi tre predecessori alla presidenza dell´Egitto, il primo era stato, per circa un anno, il generale Neghib, un prototipo del "soldier and gentleman" all´inglese, che non a caso aveva percorso una buona parte della carriera durante il Protettorato britannico. A Neghib era succeduto per sedici anni Gamal Abdel Nasser, nel bene e nel male il maggiore personaggio della storia araba contemporanea. Nessuno come Nasser aveva saputo parlare al suo popolo. Si pensi al tripudio degli egiziani accorsi nella piazza Tahrir, dopo la guerra del ‘56, per ascoltare il discorso di Nasser sulla nazionalizzazione del Canale di Suez. Quando il Raìs gridò: «Il Canale verrà ora gestito dagli egiziani, egiziani, egiziani! Mi avete sentito? Dagli egiziani». La folla ondeggiò delirante.
Il terzo leader fu Anwar el Sadat. Nel periodo nasseriano Sadat, nonostante fosse stato uno dei principali artefici del colpo di Stato contro re Faruk, fu tenuto piuttosto in ombra. Si diceva (in realtà lo dicevano i più marxisti tra i "Liberi ufficiali" che avevano fatto la rivoluzione, per esempio Khaled Mohieddin e Ali Sabri) che non fosse intelligente. Ma con la morte di Nasser, quando Sadat divenne presidente, questa leggenda d´un suo modesto comprendonio si dissolse in pochi mesi. Sadat era intelligente, un fascio d´energie, ed era bello da vedere tanto in uniforme quanto in borghese, quando indossava i vestiti che gli faceva Huntsman, un celebre sarto di Savile Row a Londra.
Tra l´altro, la callosità nerastra che aveva in mezzo alla fronte, il segno dell´uomo pio che recita regolarmente le preghiere coraniche battendo la fronte a terra, ne aumentò nei primi tempi la popolarità tra i credenti. Ma il consenso degli islamici non durò per molto, perché Sadat ne mandò a migliaia nei campi di concentramento. E per tornare un attimo all´intelligenza, basta pensare a come giocò i sovietici. Facendo armare l´Egitto con i migliori aerei, tank e missili di prodotti dall´Urss, e poi espellendo i "consiglieri" russi qualche mese prima di sferrare la guerra del Kippur contro Israele.
Hosni Mubarak non poteva reggere il paragone con i suoi predecessori. Quando nell´81 Sadat fu ammazzato da un ufficiale che usciva da un gruppo islamista, e lui, come vice-presidente ne prese il posto, il suo nome non era sconosciuto soltanto ai compilatori del Political dictionary of the Middle East, ma anche agli egiziani, esclusi ovviamente i militari. I dispacci degli ambasciatori stranieri al Cairo concordavano sul fatto che il nuovo presidente era un uomo "grigio". Nei quartieri popolari, ma anche nei club della buona borghesia sul Nilo, le barzellette su Mubarak si susseguivano. Questa, per esempio. Mubarak muore e si presenta alle porte del paradiso. Il guardiano chiede: «Quali sono le sue doti?». Mubarak è imbarazzato, ci pensa un po´ su, poi risponde: «Purtroppo nessuna». E allora il guardiano: "Ah, lei dev´essere il presidente Mubarak…».
Ma anche qui, la tesi d´una mediocrità dell´intelligenza del nuovo presidente fece presto a venir meno. Mubarak non sapeva parlare agli egiziani come Nasser, non era aitante come Sadat, era in effetti "un uomo grigio". Ma dimostrò rapidamente che la sua testa funzionava. Il trattato di pace con Israele firmato due anni prima da Sadat, gli permise di ridurre la spesa militare dal 16 per cento del Pil (con Nasser era il 36) al 6. Il Termidoro sadattiano dei primi Settanta, quando erano state riaperte le porte al mondo degli affari, fu consolidato. Fu lanciata la campagna per il controllo delle nascite, che ridusse l´aumento annuo della popolazione dal 3,5 al 2,4 per cento (non ci fosse stata quella campagna, gli egiziani sarebbero oggi 105-110 milioni invece di 80). Gettò alle ortiche il culto della personalità che aveva circondato Nasser e Sadat. Avviò, grazie all´aiuto americano, grandi lavori pubblici (fogne, telefoni, acqua, elettricità, trasporti) che migliorarono le condizioni di vita nei quartieri più poveri della capitale. Dall´´87 in poi, infatti, non si videro più migliaia di cairoti viaggiare arrampicati sui tetti degli autobus.
Certo, una cosa non era cambiata sin dai tempi di Nasser. L´Egitto restava infatti una "societé militaire". La classe privilegiata era come sempre quella degli ufficiali, cui andavano case moderne, pensioni decenti, prestigio sociale. E ai generali andava anche di più, perché usciti dalla Forze armate ricevevano incarichi negli enti economici, nell´industria di Stato, nelle grandi banche. Nonostante le liberalizzazioni, infatti (che avevano scosso positivamente l´apparato produttivo, seppure a costo d´un aumento vertiginoso della disoccupazione), l´economia egiziana aveva ancora aspetti di un´economia pianificata di matrice sovietica. Ma negli ultimi vent´anni i militari hanno collaborato attivamente con la business community egiziana e straniera, e i residui del "socialismo arabo" di Nasser sono andati man mano sparendo.
E´ aumentata ancora la disoccupazione, i salari di fame sono restati quel che erano, ed è emerso così il quadro "ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri" da cui è partita la fiammata della rivolta di questi giorni. Dalla fine dei Novanta, Il Cairo era di nuovo, infatti, una città triste, frustrata, disillusa. Né gli incassi dal petrolio del Sinai, né quelli che venivano dal turismo, né il miliardo e passa di dollari dell´aiuto americano, sembravano poter alleviare la grande povertà della grande maggioranza della popolazione. Da qui una nuova ascesa degli islamici. Con la loro rete di assistenza sociale (scuole, ospedali, piccoli prestiti alle famiglie), con il fallimento del "socialismo arabo" e le durezze del capitalismo, i Fratelli musulmani hanno trovato ormai da anni il terreno favorevole per propugnare il ritorno all´Islam.
La corruzione intanto dilagava. Si parla molto della fortuna accumulata da Mubarak e dalla sua famiglia. Qualcuno dice che quella fortuna ammonta a 50 miliardi di dollari, altri fanno cifre anche più alte. E bisogna comunque tener presente che i "profitti di regime", in ogni sistema autoritario, non fluiscono soltanto verso la famiglia dell´autocrate, ma verso migliaia di persone che costituiscono l´ossatura del regime. Dunque un´immensa ruberia. In più, l´Egitto è dall´attentato che costò la vita a Sadat, da quasi tre decenni, sotto la Legge d´emergenza che vieta ogni attività politica, la libertà di stampa e d´associazione, mentre il voto alle elezioni parlamentari è condizionato da enormi brogli contro i quali è impossibile appellarsi.
Dunque, una sorta di dittatura. Ampiamente, amichevolmente tollerata dai governi occidentali che solo adesso, con i moti del Cairo, sono insorti in nome della libertà e della democrazia. Com´è avvenuto tante volte nella storia, Mubarak è adesso il bersaglio di critiche durissime proprio da parte di coloro che ne avevano sempre elogiato l´intelligenza politica e diplomatica. Dimenticando così che senza Mubarak la rivolta del Cairo avrebbe potuto esplodere già anni fa. Che l´equilibrio della regione avrebbe potuto essere già da tempo sconvolto, producendo la stessa situazione cui adesso si trovano di fronte l´Occidente e Israele. Un vuoto politico che nessuno sa veramente come arginare.
Mentre Mubarak, diciamolo, lo aveva sino adesso evitato. Certo, avrebbe dovuto capire che il suo regime era ormai decrepito, tentennante, e ricorrere ai ripari invece di programmare per le prossime elezioni la sua ennesima candidatura, o quella del figlio Gamal. Del resto, le rivoluzioni avvengono sempre per la stessa ragione: l´incapacità del potere di discernere che il proprio tempo è trascorso. Se soltanto un mese fa Mubarak avesse infatti dichiarato di rinunciare a un nuovo mandato presidenziale, avesse liberato i prigionieri politici e messo in galera qualche centinaio di speculatori, forse non avremmo visto le scena paurose della rivolta sul Nilo.
Il vuoto causato dalla caduta di Mubarak nel più grande e importante paese arabo, in una regione cruciale e costantemente febbrile come il Medio Oriente, creerà una quantità di problemi da risolvere, e problemi molto difficili, a tutti i paesi occidentali ma soprattutto a Israele. Mubarak era stato leale, con gli israeliani. Non s´era mai discostato dai principi del trattato di pace, le sue innumeri mediazioni (con Arafat, con Hamas, con i palestinesi di Mahmud Abbas) avevano sempre tenuto presente il punto di vista israeliano. E non era stato facile, visti i sette attentati di mano islamica cui era sfuggito. E´ dubbio, infatti, che in Egitto ci siano soltanto islamisti "buoni", moderati. Quanto ai laici - questo è indubbio - tutta l´"élite" culturale del Cairo è decisamente anti-israeliana. Tutti i giornalisti, i docenti universitari, gli scrittori. Adesso, dunque, il rapporto con Israele sarà diverso.
La decomposizione del regime egiziano fa venire in mente le parole pronunciate da re Faruk mentre s´imbarcava ad Alessandria (con centoquaranta colli) per l´esilio. Al generale Neghib e agli altri uffciali che erano lì a salutarlo, Faruk disse: «Vi siete presi una brutta gatta da pelare. Perché governare l´Egitto è molto, molto difficile».