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 2011  febbraio 12 Sabato calendario

IL MONDO ARABO STRAVOLTO IN 90 GIORNI

Che ironia per Mubarak essere caduto l’11 febbraio, il giorno che gli iraniani chiamano 22 Bahman, proprio l’anniversario dell’odiata rivoluzione islamica. Nel gioco di sincronismi e di rimandi che sta attraversando il Medio Oriente, dal mondo arabo al Golfo Persico, è notevole che lunedì cerchi di ritornare alla ribalta la malconcia Onda Verde che sfidò Ahmadinejad nel 2009. Proprio con la scusa di acclamare la rivolta del Cairo, gli oppositori iraniani torneranno in piazza, sempre che il più formidabile apparato repressivo della regione glielo permetta. Come in un gioco di specchi, inneggeranno alla «vittoria» della piazza egiziana che nei crudi fatti è un colpo di Stato militare con i guanti di velluto, almeno per ora. Così celebreranno indirettamente a se stessi, oppressi in casa da un implacabile potere clerical-militare.

C’è chi, inforcando gli occhiali del dottor Pangloss, li sta già chiamando i tre mesi (se basteranno) che hanno cambiato il Medio Oriente, anche se a ben guardare in Egitto e in Tunisia è caduto il dittatore ma il regime è rimasto con reboanti promesse di transizione che nessuno è in grado di verificare. Chi l’avrebbe detto che sarebbe finita così, quando il 17 dicembre Mohammed Bouazizi si diede fuoco davanti al municipio di Sidi Bouzid, dando il via simbolicamente alla rivolta tunisina? Le masse arabe cominciarono allora a invadere gli schermi delle tv internazionali chiedendo pane e libertà, e non se ne sono più andate. La partenza del presidente Ben Ali, che l’Occidente aiutava a restare aggrappato al suo corrotto potere per tenere a bada un fantomatico pericolo islamico, è stata la prima immagine memorabile della galleria. Il vecchio satrapo se ne andava, lasciando il primo ministro in carica e i soliti generali a guidare la transizione insieme con un pugno di imbelli oppositori. Le masse sciamavano nelle strade, lanciavano parole d’ordine su Twitter e Facebook ma non avevano nessuna voce in capitolo.

«Il contagio tunisino non arriverà mai all’Egitto», aveva detto il ministro degli Esteri egiziano Ahmad Abul Gheit guadagnandosi un posto nel Blob della storia. Mentre al Cairo si avvicinava il primo sanguinoso venerdì della rabbia, scoppiavano le prime rivolte in Algeria, dove il presidente Bouteflika governa con il pugno di ferro per conto dell’esercito. Si capisce subito che non è una passeggiata come in Tunisia, lì l’apparato della repressione è quasi imbattibile, deve temere solo le divisioni interne, non certo le adunate impavesate.

Per qualche venerdì sembrò che l’incendio si appiccasse alla piccola Giordania. Strane piazze in cui si mescolavano i vessilli verdi dei Fratelli Musulmani e quelli rossi dei sindacati, chiedevano al re la testa del primo ministro, riconoscendo così il potere del sovrano insieme ai limiti della «rivoluzione». Con grande intelligenza il re li ha ascoltati e ora, almeno per un po’, può tirare un sospiro di sollievo.

Geograficamente già alla porta dell’Asia, la Turchia è stata il convitato di pietra di questi sconvolgimenti, citata da tutti gli islamisti nordafricani come il modello di un moderno Stato laico ma sottomesso ai precetti del Corano. Una contraddizione? Lo vedremo. Intanto Ankara sì è sentita quasi schiacciata da questa responsabilità e ha tenuto un profilo il più basso possibile, frenando il brillante ministro degli Esteri Davutoglu, teorico della svolta neo-ottomana.

La tentazione di vedere gli ultimi tre mesi come un’unica onda sismica di trasformazioni politiche che ha spazzato il Medio Oriente è forte. Ma il mondo visto dagli studi della Cnn o dal Dipartimento di Stato può essere molto diverso. Robert Satloff ad esempio, direttore del Washington Institute, ha spiegato alla commissione Esteri del Congresso americano: «Il vento del cambiamento che prima ha soffiato sulla Tunisia ed è diventato un tornado al Cairo, avrà un impatto in tutta la regione. Sarebbe un errore tuttavia vedere il Medio Oriente come una serie di tessere del domino che stanno cadendo. Il contesto domestico di ciascun Paese è il fattore dominante che determina la stabilità o l’instabilità di un particolare regime. La situazione è diversa a seconda del Paese». L’intervento di Satloff è stato molto conformista: ha consigliato a Obama di appiattirsi ancora di più sulle posizioni di Israele. Fatto salvo il legame storico tra i due alleati, più che una soluzione sembra una parte del problema.

Bisogna salvare le differenze, ma non vedere soltanto alberi dove c’è una foresta. Una cosa unifica tutte le crisi arabe al di là delle contingenze: l’intreccio perverso di crescita demografica e crisi economica. Un cocktail dirompente che si trasformerà domani in un incubo per i vincitori, veri o presunti, delle rivoluzioni di oggi.