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 2011  gennaio 23 Domenica calendario

IL JAZZ E’ MUSICA IN FUGA, IO LO INSEGUO

Gianluca aveva 11 anni quando cominciò a suonare il trombone nelle processioni di paese. «Il capobanda faceva il palo sul portone, le donne strillavano, si strappavano i capelli e quando usciva il morto ci mettevamo a suonare; Rassegnazione, Angoscia, Quante lacrime erano tra le più gettonate ma la marcia che andava più forte in assoluto era Jone di Errico Petrella, compositore siciliano dell’Ottocento» .
Quel Sud barocco e assolato è da qualche parte lontano nell’appartamento battuto dal vento all’ottavo piano di un palazzone di mattoni a Torino Nord, con le Alpi e la collina di Superga che nelle giornate limpide irrompono dalle finestre. C’è il silenzio delle vette e il mormorio della città nella casa di questo 35enne con l’aria da rapper e l’anima blues, riconosciuto come uno dei talenti più duttili e potenti del jazz italiano, incoronato nel 2006 e nel 2007 dal Critics Poll della rivista americana «DownBeat» miglior trombonista emergente del mondo. Barese, ultimo di tre fratelli musicisti, Gianluca Petrella (con Errico nessuna parentela) ha vissuto in Germania, in Francia, tornato in Italia ha trascorso un periodo a Bologna e infine ha scelto Torino, la città industriale e magica «senza strettoie né zigzag, dov’è passato Nostradamus ed è impazzito Nietzsche, un posto di simboli e misteri».
Lo stereo sputa un pezzo degli anni Venti, Dark Was the Night di Blind Willie Johnson. Le pareti rosse e azzurre, «le ho colorate per i miei figli» , Amanda e Moreno gemellini di quattro anni, «non hanno ancora deciso cosa suoneranno da grandi» e fanno capolino dal MacBook Pro sempre acceso. «Da piccolo non avevo molti interessi, neanche il trombone mi entusiasmava, lo suonava mio padre e non capivo la "missione", a dieci anni è più naturale avvicinarsi al pianoforte o al violino, al flauto traverso, magari al canto. Dopo la terza media andai al conservatorio dove l’impostazione era molto seria, dovevo stare attento alla postura, alla tecnica; per fortuna avevo un gruppo di amici che la sera si riuniva per suonare e questo per un ragazzino è importante, sottrae all’obbligo, apre un mondo parallelo. Finito il conservatorio, cominciai a studiare soffermandomi sulle cose, a lasciarmi catturare» . Incontri e illuminazioni, gli azzardi che hanno fatto il jazz — John Coltrane che si sblocca dopo l’ingresso nella band di Thelonius Monk, il trombettista Howard McGhee che ripesca Charlie Parker ridotto a vivere in un’autorimessa e lo aiuta a suonare Lover Man in un’incisione drammatica destinata a diventare leggenda, Fats Waller che ripaga Fletcher Henderson di nove hamburger con altrettanti pezzi compresi Hot Mustard e Henderson Stomp... «Fu come un risveglio, i consigli degli amici e le storie di grandi musicisti, dal trombonista J. J. Johnson al sassofonista Ornette Coleman, film come Il cielo sopra Berlino, una città, una parola, un libro, improvvisamente ogni esperienza mi dava energia, le idee si inanellavano e nascevano progetti» .
In un angolo del soggiorno giocattoli e scarpine, il trombone, un libretto sul futurismo e il catalogo di una mostra dedicata a Majakovskij, un vago senso di rottura nella cucina con le stoviglie e i piatti da lavare. Mette su Cypress Grove di Skip James «che nel ’ 31 registrò una session lunghissima per pochi dollari alla Paramount, se ne tornò a casa e non fece altro finché nel 1961 lo chiamarono al Festival di Newport» . Petrella ha ripreso quella voce nel suo ultimo lavoro, Slaves (Schiavi), «uno dei pochi dischi ben mirati su qualcosa di preciso, il blues» , che esita metallico e dilaga disperato tra le smagliature della melodia, negli spazi vuoti della casa; intorno pochi oggetti, «ho bisogno di respiro; al contrario, nel mio studio all’Hiroshima Mon Amour, il club poco lontano da qui che ospita la mitica Radio Flash, c’è di tutto, campionatori, multieffetti, computer, strumenti recuperati nei mercatini o ipersofisticati, quello che faccio ha un’elaborazione molto lunga e complicata» . Nasce da contaminazioni continue, dalla manipolazione ossessiva dello sperimentatore che spezza strutture e disarticola frasi musicali, un po’ come i futuristi facevano esplodere forma e logica per inseguire l’essenza dinamica del Novecento in fuga.
«Prendere ispirazione significa attualizzare il passato attraverso i suoni che mi circondano e cercare qualcosa di completamente nuovo» , quell’istante della vita che diventa poesia e che, nel regno dell’improvvisazione dove ideazione e realizzazione si fondono, è tutto. «Il jazz ha bisogno di evolvere, sempre, non lo puoi fermare. Da ascoltatore, mi piace recuperare le vecchie registrazioni dal suono sporco per capire cosa faceva Parker quando la notte nei club trasformava i pezzi delle orchestre da ballo aggiungendo assoli e innervosendo i ritmi, da musicista però non ho motivo di riproporre cose già pensate con la qualità sonora di oggi, sarebbe falso, roba da sala ricevimenti. Nella composizione un’idea può nascere dal semplice suono della matita sul pentagramma che si trasforma in una linea melodica da seguire e sviluppare. Tutto diventa musica. Improvvisare, per uno che non ha proprio un’occupazione fissa, è ancora di più, un modo di respirare, il tuo modo di stare al mondo e sopravvivere» .
Si esibisce nei grandi club come il Birdland e il Blue Note di New York, il Sunset e il Sunside a Parigi «ma il mio preferito è il Bimhuis di Amsterdam, costruito come un anfiteatro romano sul Grand Canal con le gradinate e in basso l’orchestra sovrastata da una vetrata gigantesca. La cosa più bella in uno spettacolo è il contatto con il pubblico che ti carica, anche se non dormo da giorni in quei momenti trovo sempre la concentrazione» . Suona in più formazioni, come il quartetto Tubolibre di Slaves e la Cosmic Band a dieci elementi nella quale ha trovato il suo mix di rock, free ed elettronica e che non a caso ha per nume tutelare quel pazzo di Sun Ra, il santone dell’avanguardia nera che si proclamava figlio delle stelle e concepiva la musica come un viaggio cosmico tra futuro remoto e ritmo ancestrale. Anarchico per vocazione, è affascinato dalla rivoluzione libertaria degli anni Sessanta e Settanta «quando c’era quel filo tra musica e politica...» , dal free jazz di Dolphy e Coleman «il dio che in un’epoca dominata dal be bop stravolse un’idea di jazz molto compatta e definita» ma anche dal jazz rock di Weather Report e Soft Machine o «dal Miles Davis che dall’album Bitches Brew osò la svolta elettronica spostandosi nei territori dove si muovevano i grandi alla Hendrix e scandalizzò i puristi nostalgici degli anni Cinquanta, spinto dalla fame di successo» che non è una colpa, quando poggia sulla benedizione del talento.
Gianluca ascolta hip hop e Debussy, detesta «il pop che non sfida ma compiace e appiattisce i gusti dei giovani» , è scettico su «certi meccanismi da star system che stanno prendendo piede anche nel mondo della musica alternativa» . Legge Dostoevskij, Bulgakov, Tolstoj («grande la fiaba Ivan lo scemo» ), storie di infelicità raggelata come Bambino 44 ambientato da Tom Rob Smith nell’Urss del 1953; ama ancora di più gli americani, l’Eddie Bunker di Educazione di una canaglia e Cane mangia cane, il Cormack Mc-Carthy di Non è un paese per vecchi («il romanzo molto meglio del film, i fratelli Coen sono troppo precisini» ). Di McCarthy soprattutto, stropicciato su una mensola nel tinello, La strada, «The Road — carica il titolo in inglese— l’ho divorato in due giorni» . Un dolore feroce e senza anestesia che fa pensare all’origine, ai lamenti e al grido dei calls e cries dai quali più di cent’anni fa è nato il jazz, storie di seminterrati e violenza, prigionia tra pareti scrostate e ancora catene. «Tutto sta nell’avvio — dice prima di rimettersi a suonare — lo strumento è una macchina, basta anche poco fiato ma devi fare attenzione al colpo di partenza, poi sostieni» .
Maria Serena Natale