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 2011  gennaio 23 Domenica calendario

FABRI FIBRA

Chi è Fabri Fibra e perché dobbiamo parlare di lui? Beh, innanzitutto perché è il rapper più in vista della scena italiana e perché ha, da alcuni anni, grande successo. Poi, perché da quando è arrivato fa scandalo, costringe gli altri a occuparsi di lui: lo hanno accusato di avere poco rispetto delle donne, di usare un linguaggio blasfemo, di banalizzare il crimine, di esaltare la violenza. Simpatico? No, ascoltando i suoi primi dischi è impossibile definirlo simpatico. Ma con il passare del tempo le cose cambiano, Fibra incide con Gianna Nannini, scala le classifiche, cambia tono, cambia parole. E le parole, in questo caso, pesano. E sono quelle che fanno di lui una star.
Fabri Fibra è in tour, gira da una parte all´altra d´Italia, e migliaia di ragazzi lo vanno ad ascoltare. Lo incontriamo a Roma, in un albergo, in una pausa di quello che, se da una parte è certamente un lavoro, per lui è in realtà la vita straordinaria che è riuscito a costruirsi con fatica, uccidendo Fabrizio e facendo nascere Fabri. Iniziamo a parlare, confessiamo un pizzico di prevenzione da parte di chi, come molti, ha avuto qualche difficoltà nel mandar giù alcuni dei testi dei suoi brani. Lui non si scompone. È abituato alle critiche, ma allo stesso tempo è stufo di essere dipinto sempre come un omofobo violento, un rapper stupido, il perfetto figlio degenere dei suoi tempi. Parla di sé con calma, della «morte» del ragazzo di provincia che era e della «rigenerazione» in eroe del rap. Proviamo a capire come accade che un ragazzo che si chiama Fabrizio Tarducci diventa Fabri Fibra. «Non lo so raccontare nemmeno io. Ci sono arrivato per vie traverse, ho sempre provato a fare altro, scrivere era la mia passione, ma mai avrei pensato di trasformarlo in un lavoro. E ora che lo è diventato lo vivo come se lo fosse sempre stato. Ho avuto tre fasi diverse: una prima da autodidatta, in casa, dai sedici ai ventidue anni. Poi, dai ventidue ai ventisei, mi sono mosso in giro per l´Italia. E dai ventisei a oggi sono arrivato a Milano. Tre fasi significative, perché facevo cose diverse, frequentavo persone diverse, e ognuna delle persone che ho incontrato, delle cose che ho fatto, ha contribuito a farmi diventare quello che sono adesso».
Insomma, rapper non si nasce, ma si diventa, con le esperienze e la vita, che vanno messe in tasca e nel cervello. «All´inizio stavo in casa, con mio fratello, lavoravo in fabbrica, in un supermercato, non pensavo che le mie rime avrebbero assunto una forma migliore. Forse mi accontentavo perché ero un sognatore di provincia, parlavo di tutto e di niente, mi lasciavo prendere dal gusto della parola. Pian piano le cose sono cambiate, ho cominciato a uscire, a muovermi, a prendere treni e a incontrare le persone giuste. Cosa mi guidava? La passione, forte, fortissima, talmente forte che mi ha salvato, mi ha trasformato».
E così Fabrizio diventa Fabri. «Sono stato un adolescente diverso, dove sono cresciuto, a Senigallia, era difficile trovare degli amici, gente con cui condividere tempo e passioni. Quando ne trovavi uno era come scoprire un tesoro. Non che fossi chiuso, o disadattato, ma sapevo che c´era qualcos´altro e lo volevo trovare». Fabri se ne stava nascosto dentro Fabrizio e qualcuno lo ha visto e lo ha tirato fuori. «Tutto è cambiato quando ho incontrato una persona importantissima, Neffa. È lui che mi ha scoperto, da lui ho capito cosa voleva dire scrivere. Lui è bravo a usare parole, e ho imparato da lui che ogni parola ha un peso specifico. Sono stato da lui a Bologna, poi ho conosciuto quella che oggi è la mia manager, che all´epoca aveva una rivista hip hop, e tutto è cambiato di nuovo». Esce il primo disco, Turbe giovanili, vende mille copie, in pochi si accorgono di lui. «Non che me ne importasse molto, ma le cose non andavano come dovevano, anche nella mia vita privata. Lavoravo in un posto terribile, non ce la facevo più. Andai in Inghilterra, e lì mi convinsi che la mia vita era, doveva essere, la musica».
E oggi chi è Fibra? È molto diverso da Fabrizio? È reale o è un personaggio che Fabrizio si limita a interpretare, a rendere vivo, a portare sulla scena? Mentre parla Fibra ha un tono serio, pesa le parole, dipinge se stesso con attenzione: «Fibra è un personaggio che può dire determinate cose in questo Paese piatto e disabituato ad ascoltare cose nuove. Quello che dice Fibra io lo penso. Lo faccio dire a lui perché lui è un supereroe illuminato che spacca il culo a tutti e può dire ciò che vuole. Non sono io ma sono io». Fabri ora parla a raffica, senza sosta, spiega, racconta, non vuole essere frainteso, non vuole essere ancora una volta materia di polemica, di scandalo. Ma scandali e discussioni ne ha scatenati sempre tanti e tutto, anche questa nuova consapevolezza, questa maturità, sembra frutto di una attenta strategia. «Il fatto che ci sia stata, all´inizio, l´intenzione di stupire con la cattiveria mi sembra evidente. Applausi per Fibra era frutto di strategia, un trailer in cui mettevo in scena il peggio di me, con un testo che aveva dentro Erica e Omar. Sensazionalismo. Avevo bisogno di farmi vedere, venivo dalla provincia, non sono un figlio d´arte, non ho quella sicurezza che ti viene dall´aver frequentato un certo mondo. Ho fatto tattica di sfondamento, ho pensato che dovevo dire cose che gli altri non dicevano, e non mi interessava se sarebbe stato un bene o un male. Se avessi fatto un pezzo come In Italia nel 2006 non sarei mai arrivato».
Un tempo c´erano i locali, i club, i concerti, le piazze. La gavetta. Oggi fare scandalo è il modo migliore per diventare visibili? «Sì, la gente vuole il sangue. È l´era dell´estremo. Se deve venire fuori un rapper oggi deve essere un mostro che attiri l´attenzione. E se si vuole presentare un mostro, non c´è un modo simpatico per farlo. La verità è che io so bene cosa faccio, perché so cosa vuol dire lavorare. Stavo in catena di montaggio fino a cinque anni fa: ho visto che il mondo dello spettacolo era vuoto e che c´era spazio per me. Poi è arrivato il successo, il pubblico, i dischi venduti, ma c´è anche il lato oscuro, e devi saperlo gestire. Io ho avuto la fortuna di aver provato tutte le schifezze prima. E oggi, anche se succedono cose peggiori, la mia vita è meglio di com´era prima».
«Prima» significa il lavoro in fabbrica, una famiglia con genitori separati, la difficoltà a gestire i rapporti umani. Una storia come tante che Fibra prova a volgere a suo vantaggio, trasformandola in materia per dischi che hanno contenuti violenti, difficili, scomodi. Per un rapper è importante che si capisca il suo messaggio? C´è un messaggio? «Una persona scrive delle cose in una realtà metafisica che è il disco: quel disco, quel giorno, e tanto basta. E quando non si riesce a capire quello che c´è dentro io sono contento. Voglio che nasca il dubbio». Fibra è davvero un ribelle? Non tanto, a ben guardare. È ormai un ragazzo «maturo» che non ha nulla in comune con i teenager che affollano i suoi concerti. «Lavoro con l´Adidas, una multinazionale, sono più inquadrato di tanti altri. Ma la verità è che ci si muove per schemi vecchi, non c´è la voglia di capire, fa comodo lasciare tutto in superficie e non ascoltare davvero. Parlo di quello che accade intorno a noi, e mi viene facile mettere in scena gli incubi nazionali. Poi però se parlo di stupri dicono che incito alla violenza, e lo stesso accade se parlo di gay o di pregiudizi razziali. Metto solo in scena un sentimento che è nazionale, e che è tutto italiano. E l´italiano è quello che quando accende Striscia la notizia non sta a sentire le denunce o i problemi, ma guarda le due fighe che ballano sul bancone».
Allora, proviamo a fare il punto: Fabri Fibra è arrivato in scena scandalizzando tutti, non voleva essere simpatico e, fino a un certo punto, interpretava consapevolmente un personaggio scomodo e ribelle. Oggi, passati i trent´anni, è più maturo, attento, accorto, ha raggiunto una straordinaria popolarità, ed è uscito dal ghetto del rap. E inizia a parlare di «controcultura». Che cosa vuol dire controcultura oggi in Italia? «È un seme che si appresta a germogliare, lo sento nei ragazzi che vengono ai concerti, con la voglia di svuotarsi, di non credere a quello che gli raccontano, con la voglia di confrontarsi e, magari, di cambiare idea. Forse la prossima generazione sarà pronta per distruggere questa Italia di plastica che non sta solo in televisione ma ovunque. Controcultura sono le nuove generazioni con la voglia di disintegrare questo sistema che ti spinge a non pensare, a non interpretare le cose che vedi e senti. Oggi è ancora il momento dell´estremo e dello scontro, non del confronto e della crescita. Ma cambierà, perché in trentaquattro anni ho visto attorno a me sempre meno, è un continuo togliere: diritti, lavoro, vita. E quando ti tolgono tutto prima o poi le cose cambiano. Quando ho cominciato a fare rap avevo sedici anni, la controcultura era già morta, i centri sociali in declino, non c´era nulla per nessuno. Sì, a farla rivivere sarà la prossima generazione. Durante i concerti dico sempre a chi mi ascolta: l´unica cosa che ti può salvare nella vita è avere una passione da condividere, perché tutti pensano solo a farsi i cazzi propri. La controcultura è questo, un velo di speranza. Intitolando così il mio disco ho pensato che potesse essere uno stimolo. Magari può servire a far nascere qualcosa, magari i ragazzi cominceranno a smontare i miti. Me compreso, magari».