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 2011  gennaio 23 Domenica calendario

L´UOMO CHE HA DISEGNATO NEW YORK

Se siete a New York, e nella metropolitana alzate gli occhi cercando il segnale per Brooklyn, quello è Massimo Vignelli. Se siete arrivati fin qui con un volo American Airlines, quello è Massimo Vignelli. Se bazzicate nell´Upper East Side, e nella bramosia delle compere finite da Bloomingdale´s, quello è Massimo Vignelli. Se invece vi basta l´inseparabile golf Benetton, beh, anche quello è Massimo Vignelli. Se siete tornati a Roma, e nella stazione Termini cercate il segnale di uscita, quello è naturalmente Massimo Vignelli. Poi, certo, se siete così fortunati da avere una Thema, o ricordate ancora la prima volta che avete invitato la fidanzatina sulla Ypsilon, anche quello, sì, anche il restyling del logo Lancia è Massimo Vignelli. E se dalla libreria di famiglia, giusto per darvi quell´aria radical chic, tirate giù la Storia del movimento operaio, Edouard Dolléans, Biblioteca Sansoni, 1963, ok, sarà Massimo Vignelli. Oh: ma non era morto, Marx? Ad ogni modo: se pensate di poter elaborare il lutto con una bella Falanghina di Feudi di San Gregorio, sappiatelo - anche quella è Massimo Vignelli...
Dall´alto dei suoi ottant´anni, il milanese Massimo Vignelli ha disegnato davvero il mondo che ci gira intorno. Loghi su loghi. Insegne. Mobili. L´università di Rochester, New York, gli ha prelevato l´intero archivio e l´ha catalogato come fosse Leonardo. Gli ha chiesto, in cambio, di poterlo utilizzare nei corsi della School of Design. E di realizzare, lui stesso, l´edificio del museo: il Vignelli Center for Design Studies. «Ricordo ancora il giorno in cui portai gli schizzi delle nuove copertine alla Sansoni, mezzo secolo fa», dice l´architetto rimettendo in ordine la scrivania della sua casa-ufficio sull´Upper East Side, il catalogo dell´Olio Carli - bandiera d´italianità a Manhattan - che spunta sotto il dvd di Helvetica, il documentario di Gary Hustwit di cui Vignelli è il mattatore. «Un libro, dissi, è come una scatola di saponette: quello che conta è la copertina, l´impatto, la capacità di lanciare il concetto di brand. Benedetto Gentile, che allora guidava la casa editrice, si mise le mani nei capelli. E figuriamoci: Benedetto, il figlio di Giovanni, il filosofo dell´idealismo». E teorico del fascismo. Benedetto si arrese. E per la prima volta in Italia un editore pubblicò i libri con il titolo che invece che da sinistra a destra andava dall´alto in basso. Il nome dell´autore grande quanto quello del saggio. Rigorosamente in Helvetica: il carattere (tipografico) che resterà indissolubilmente legato al marchio Vignelli.
Se gli chiedi di rivelarti il segreto del bravo designer, il maestro sfodera il tris che adesso insegnano a Rochester: History, Theory, Criticism. Storia, teoria e senso critico. Storia, soprattutto. Perché prima del nero su bianco a testa in giù per la Sansoni, per esempio, c´era il nero su bianco di Albe Steiner sui Gettoni, intesi come collana libraria, che Elio Vittorini faceva circolare per Giulio Einaudi. Ma quello che ha distinto e distingue Vignelli dagli altri navigatori della grafica e del design è una scoperta fondamentale: la scoperta dell´America. È il 1965 quando decide di chiudere bottega a Milano. Per carità. Lì le cose andavano benissimo: Olivetti, Pirelli, Rank Xerox. Ma Vignelli ce l´aveva nel destino di dover saltare dal treno in corsa. Forse perché è nato in via San Gregorio, tra i giardini di via Palestro e la Stazione Centrale. Forse perché la voglia di fuggire ce l´aveva fin da bambino: «Mio papà voleva che continuassi con la bottega di famiglia, una piccola industria chimica, ma a me solo l´odore di fenolo faceva stare male». A quattordici anni già ricopia i bozzetti dei grandi con l´abilità di un copista medioevale. Fa il liceo artistico. Si iscrive al Politecnico, Architettura, ma poi punta subito a Ca´ Foscari, Venezia. Entra nella bottega di un grande come Achille Castiglioni: «Tiravo linee, tiravo linee, tiravo linee». Si sbatte come un pazzo per Ernesto Rogers, il genio che con Banfi, Barbiano di Belgiojoso e Peresutti darà vita al mitico BBPR che farà nascere la Torre Velasca.
Proprio per consegnare una lettera di Rogers il giovane Vignelli bussa un giorno a una casa di Porte Molitor, Paris. «Ero così emozionato che sbaglio entrata e salgo dall´ascensore di servizio. Finisco diritto in cucina con la moglie che mi urla in faccia dallo spavento. Chiedo: ho un appuntamento col maestro. E lei mi chiama Le Corbusier». Le Corbusier! «Il mito della mia vita mi introduce in quell´appartamento che conoscevo a menadito: l´avevo studiato milioni di volte sulla mappa. Qui si gira a destra, qui la scala a chiocciola che porta allo studio, da qui si va per il salone. Sapevo già tutto. Il rock dovevano ancora inventarlo ma io ero già un groupie: un fan scatenato dell´architettura».
Vince una borsa di studio per una scuola d´arte di Boston. L´America alla fine degli anni Cinquanta è davvero una New Frontier. Che Vignelli affronta con la donna che gli sarà vicino per tutta la vita: una compagna di scuola e di arte chiamata Lella. «Ci eravamo sposati prima di partire. Eravamo caricatissimi. Un anno a Boston, poi a Chicago, che allora era una sorta di Bauhaus in esilio, con tutti i maestri finiti lì». Finisce, però, anche quell´avventura. Scade il visto e i Vignelli tornano a Milano. «Una mattina di ferragosto 1960: non la dimenticherò mai. Corso Magenta un deserto: nemmeno un´auto, un tram, un passante». Tranne Giuseppe, l´amico Giuseppe, Giuseppe Trevisani, il giornalista e grafico che disegnerà il manifesto e cambierà il volto ai giornali italiani. «Mi dice: c´è una grande compagnia che cerca un design, un grafico. Io: perfetto. Studio bellissimo dietro San Babila. Stipendio da favola. Lavoro zero. Dopo tre mesi non reggo e presento le dimissioni. E quelli: ecco la sua liquidazione. Non ci volevo credere. Scendo giù in strada, giro per via Durini, e lì dal concessionario c´è un´Alfa Spider rossa con interni neri che mi guarda: la prendo. Torno a casa e mi presento a mia moglie. "Ci sono tre novità. Una, mi sono licenziato. Due, abbiamo una Spider. Tre, apriamo finalmente il nostro studio". La povera Lella era lì che buttava la pasta e comincia a piangere che non la smette più».
È il contrario della "Legge di Mike" che Ernest Hemingway svelò in Fiesta: «Come hai fatto ad andare in rovina?» «In due modi: gradatamente prima e poi tutto d´un colpo». Massimo Vignelli gradatamente è cresciuto a Milano. E poi, tutto d´un colpo, ha conquistato l´America. «Nel 1965 rifacciamo le valigie. Avevamo già fatto qualche mostra grazie ai nostri amici di tanti anni prima: funzionava. Abbiamo detto: proviamo». Da allora Vignelli ha disegnato di tutto. Superando mode e contestazioni per ritrovarsi dopo mezzo secolo ancora all´avanguardia. In fondo le linee asciutte dell´iPhone e dell´iPad che svettano sulla scrivania sono scuola sua. Ha vinto il suo minimalismo: e non i fronzoli degli anni Ottanta. «Apple è l´Olivetti del Duemila. Una stessa linea per i prodotti, i negozi, tutto. No, io non disegno con il computer: per me è più veloce la matita, a quest´età dovrei ricominciare a studiare tutto. Però, vede, se schiaccio qui, ecco, questo è il Vivaldi che ho registrato dal mio giradischi. Questo crac crac? No, questo è uno Stravinski originale. Stravinskj che dirige Stravinskj. C´è un programma che ti toglie anche il fruscio. Ma toglieresti il fruscio a Beethoven?».
Il computer non lo spaventa, anzi. «Ma non è una sfida per me». Eppure quando ha deciso di sintetizzare la sua esperienza s´è buttato, a sorpresa, proprio sul libro elettronico. The Vignelli Canon è uscito online due anni fa: trecentomila clic nel primo mese. «E quale editore avrebbe potuto assicurarmi un simile exploit? L´hanno scaricato perfino in Russia; vuole vedere la traduzione in cirillico?». L´altro giorno era all´Apple Store a portare a riparare il portatile. Il ragazzo ha preso il nominativo. «Dico: Massimo Vignelli. Lui: quel Massimo Vignelli?? Per me è stato l´onore più grande: non sono mica un attore famoso». Non sarà un attore ma alla festa a sorpresa per i suoi ottant´anni il New York Times ha dedicato una pagina intera. Embé. Tra gli invitati allo showroom di Poltrona Frau, nel cuore di Soho, c´erano Richard Meier, l´archistar, Milton Glaser, quello del logo I love New York.
Maestro, può bastare? Si ferma. Sorride: «Ormai c´è solo un brand che mi piacerebbe ridisegnare». Prego. «Quello del Vaticano». E perché mai? «Mi vedo già davanti al Papa: Sua Santità, il marchio è perfetto» e con le dita fa il segno della santa croce «ma tutto il resto è da rifare. Vogliamo cominciare?».