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 2011  gennaio 21 Venerdì calendario

LA RIVOLUZIONE ARABA

Non accadeva da più di mille anni. Lo senti dire spesso con una certa emozione, anche da chi, di solito, a cena sulla riva del Nilo, mantiene una certa flemma, e non parla di politica. Argomento indigesto. Capita di udire le stesse parole – mille anni! – anche nel suk di Khan el Khalili, dove non si ha l´abitudine di misurare il tempo. Forse è un´esagerazione. Basta frugare a fondo nella storia araba e qualcosa di simile salta senz´altro fuori: una spontanea rivolta di piazza che, come è accaduto a Tunisi, caccia dal potere un raìs detestato e corrotto.
Il tunisino Ben Ali, l´ex raìs adesso in esilio a Gedda, un tempo era considerato come è capitato ad altri uno "zaim", apparteneva alla categoria dei capi arabi che se non sono proprio un´espressione della volontà popolare, sono perlomeno capaci di interpretarne i sentimenti, incarnano insomma la media dei loro sudditi. Ben Ali all´inizio non era dunque soltanto un raìs, vale a dire un boss, più duro che giusto, e incallito dalla corruzione, quale è poi diventato secondo un´inevitabile parabola. E si sa che i soli in grado di scalzare un raìs di quella specie, amato o detestato che sia, sono i militari. Ci vuole un colpo di Stato, un putsch, o una guerra. Altrimenti nessuno li schioda. Salvo la morte che vince le longevità caparbie dei raìs. A memoria d´uomo la gente, il popolo, al massimo riempie le piazze e se ne va lasciando cadaveri e feriti nella polvere. La Tunisia è un´eccezione: la piazza ha vinto.
E´ normale che il fatto sia definito storico e provochi brividi nel Maghreb e nel Maschreck, nel mondo arabo d´Occidente e d´Oriente: brividi di malessere, se non proprio di paura, tra i potenti, tra i colleghi di Ben Ali; ma anche stimoli per sperare tra quelle che ancora si chiamano masse; le masse arabe che possono sognare di poter imitare un giorno i tunisini.
Una forte e qualificata rappresentanza di potenti arabi era riunita fino a poche ore fa a Sharm el Sheik, sul Mar Rosso egiziano, con la tacita decisione di non parlare della Tunisia. Perché farsi paura, evocando un possibile contagio di quella rivolta riuscita? All´ordine del giorno c´era la situazione economica e sociale e non era quindi il caso di evocare i demoni scatenatisi sulla costa Mediterranea. Se ne è ben guardato Hosni Mubarak, il raìs egiziano che governa su ottanta dei trecento milioni di arabi. Ma il segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, ha fatto da guastafeste ricordando che «la rivoluzione tunisina non è lontana».
È lì a due passi. Come si può non parlarne? E ha riconosciuto che gli arabi «sono entrati in uno stato di rabbia e di frustrazione senza precedenti». La diagnosi di Mussa deve avere provocato una scarica di adrenalina nell´assemblea dei potenti, a Sharm el Sheik. O perlomeno ha acceso dei dubbi sull´immutabilità del potere.
La rabbia, la frustrazione, la forte curiosità, non le vedi concretizzate sulle rive del Nilo. Niente manifestazioni. Soltanto una manciata di giovani nei giorni scorsi davanti all´ambasciata tunisina. Ma nei discorsi i tunisini sono i nuovi eroi popolari. Allo stesso modo gli egiziani esaltavano i feddayn palestinesi per consolarsi dell´umiliante sconfitta nel Sinai, davanti all´esercito israeliano, nel ‘67.
Ci sono stati dei sacrifici umani; e si dice siano stati ispirati da Mohammed Bouazizi, il tunisino di 26 anni che si è appiccato il fuoco il 17 dicembre, per protestare contro il rifiuto della polizia di dargli il permesso di vendere frutta e verdura. Morto qualche giorno dopo, Bouazizi è diventato il martire della rivoluzione tunisina. È già una leggenda: è lui che ha infiammato il paese. Davanti al Parlamento, qui al Cairo, l´egiziano Abu Abdel Monem ha seguito il suo esempio, lunedì 17 gennaio, al mattino. Arrivava da Qantara, nel delta del Nilo, dove aveva un piccolo negozio di alimentari, e ha acceso un fiammifero dopo essersi cosparso di benzina. Non ce la faceva più a mantenere la famiglia con quattro figli. Ad Alessandria, Ahmed Hashem, 25 anni, è salito sul tetto della sua abitazione e si è immolato. Un avvocato, Mohamed Faruk Hassan, ha tentato invano di uccidersi con lo stesso rito, al Cairo, nelle vicinanze del Parlamento, spiegando che il suo sacrificio era una protesta contro l´aumento dei prezzi.
Le autorità, confortate dai medici, hanno detto che quei suicidi o tentati suicidi non avevano un carattere politico. Si trattava di malati mentali, non di avanguardie di una "rivoluzione dei gelsomini" versione egiziana. Subito gli internauti, che hanno diffuso notizie e immagini degli avvenimenti tunisini, hanno lanciato uno slogan: «Siamo tutti malati mentali». Gli egiziani amano le nokta, le barzellette, le battute, ironiche o sarcastiche, che non risparmiano i politici. Grazie al web le nokta circolano indisturbate. La Grande ragnatela mondiale, tanto efficace in Iran o in Moldavia, ha consentito e consente tra Tunisi e il Cairo una fitta rete di scambi di informazioni e di suggerimenti che la censura non riesce a impedire. Quello spazio che sfugge al loro controllo è l´ossessione dei regimi autoritari e dei loro servizi di sicurezza. In questi giorni è l´ossessione delle principali capitali arabe.
All´Università americana, dove chiedo con candore a due sofisticati docenti arabi se hanno l´impressione che l´Egitto di Mubarak stia adesso correndo il rischio di crollare, ricevo una risposta degna della Sfinge. Prima un sorriso ironico e poi un ben scandito «forse domani, forse mai». Una non risposta. Ma inevitabile. È quasi identica la risposta di un redattore di Al Ahram, il quotidiano cairota che ieri sottolineava con risalto l´impatto degli avvenimenti tunisini nei paesi arabi. Dico quasi perché il giornalista mi offre un´analisi più ampia della situazione egiziana, assai diversa da quella tunisina, non solo per la natura del regime, ma anche per le dimensioni e la complessità della nazione che si stende sulle sponde del Nilo.
Quella di Hosni Mubarak, al potere dal 1981, anno dell´uccisione di Anwar al Sadat, è una dittatura sottile, capace di centellinare gli spazi di libertà e di imporre un esteso controllo poliziesco. Il suo partito, il Pnd (Partito nazional democratico), è la formazione politica dominante. Di fatto, il partito unico che il presidente ha affidato al figlio più giovane, Gamal; mentre l´altro figlio, Alaa´ Mubarak, si dedica agli affari. E in quel campo è considerato dinamico e invadente. Business e politica spesso si confondono. O addirittura si fondono. Una piccola costellazione di partiti minori, impegnati in un´opposizione dubbia, comunque con angusti spazi di manovra, dà una parvenza democratica a un regime che democratico proprio non è. I Mukhabarates-A´amat, i servizi segreti, sono i veri garanti del regime. Lo stato dì emergenza, decretato nel 1981, all´epoca dell´assassinio di Sadat, è tuttora in vigore.
La liberalizzazione degli scambi economici ha avuto come principale conseguenza una ancora più ampia differenza dei redditi, se tali possono essere chiamati quelli delle classi più diseredate in continuo aumento. Il rincaro dei prezzi porta a puntuali rivolte; la più recente e la più grave è avvenuta nel 2008; e almeno sotto questo aspetto il grande Egitto presenta qualche somiglianza con la piccola Tunisia (con soli dieci milioni di abitanti). Ma per il resto i profili dei due paesi sono molto diversi.
La rivolta tunisina non ha rivelato finora nessuna infiltrazione musulmana integralista. È stata laica. Nelle manifestazioni non sono apparse bandiere verdi dell´Islam, né sono risuonati slogan religiosi. Appare dunque usurpato il ruolo di diga anti-islamica affidato a Ben Ali dai suoi protettori americani ed europei.
Invece il movimento dei Fratelli Musulmani, moderato ma anche matrice di correnti integraliste, in elezioni oneste, senza i grossolani brogli tradizionali, otterrebbe in Egitto risultati vistosi. Mubarak li tiene a bada, li emargina, capita che li corteggi in segreto, aiuta le moschee e cosi indirettamente li blandisce, li mette ogni tanto in prigione.
Tra i suoi principali compiti c´è quello di impedire il dilagare dell´islamismo. Come i suoi colleghi sorveglia il suo popolo. Più che esserne l´espressione, è il guardiano. Il pericolo islamista, vero, esagerato o inventato, dà legittimità ai regimi autoritari. L´Egitto di Mubarak è schiacciato tra gli Stati Uniti, che finanziano in larga parte il suo esercito, e Israele, che gli consente un ridotto spazio di manovra.
E poi c´è l´età, ottantadue anni, e il problema della successione. Entro l´anno il vecchio generale dovrà decidere se lasciare il potere al figlio Gamal, o restare per altri sei anni alla presidenza. Quello sarà un momento cruciale. Dopo trent´anni di potere Hosni Mubarak soffre di qualche malanno fisico e dell´usura del potere. Gli attentati alla sua persona non si contano. Ma quel che pesa su di lui, e su di chiunque governi nel prossimo futuro l´Egitto, è il problema di creare i mezzi per far vivere i cento milioni di egiziani di domani. Cioè del 2050. Due secoli fa il Nilo dava da mangiare a 6-8 milioni di uomini e donne. Oggi vivono sulle sue sponde ottanta milioni, dei quali dieci sono copti. Una rivoluzione egiziana sarebbe un´altra cosa.