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 2011  gennaio 22 Sabato calendario

PEDAGOGIA TRICOLORE

I l presidente Napolitano, aprendo le ce­rimonie per i 150 anni dall’Unità d’Ita­lia, ha difeso il Tricolore. Ha fatto bene? Certamente sì; anzi, ha fatto benissimo. L’identità italiana esiste; prima ancora di avere un carattere politico essa ha avuto nei secoli un carattere linguistico, reli­gioso, letterario, artistico, un carattere, cioè, ’nazionale’. Il Risorgimento, que­sto dovrebbe ormai essere chiaro a tutti, non ha creato ’una’ nazione, ma una co­sa diversa: ha creato ’uno’ Stato italiano come Stato italiano unitario. Questo Sta­to unificato (e anche questo dovrebbe es­sere ormai chiaro a tutti) in modo meno limpido, meno eroico, meno condiviso e purtroppo anche meno nobile di quanto una certa storiografia risorgimentale non ci abbia insegnato fino a tempi molto re­centi, possiede ormai ai nostri occhi una legittimazione consolidata. Diversamen­te infatti rispetto ad altre esperienze di u­nificazione statale, che hanno compor­tato il prevalere indebito di una parte del Paese rispetto ad altre (esempio tipico quello della Spagna, nel quale l’elemen­to castigliano ha cercato, sia pur invano, di sradicare tutte le identità ispaniche mi­noritarie, a partire da quella catalana), at­traverso il Risorgimento nessuna delle tante tradizioni italiane preunitarie ha ac­quistato un primato sulle altre, ma tutte si sono, sia pur non senza contraddizio­ni, amalgamate tra loro. E anche di que­sto è simbolo il Tricolore. Che rapporto va istituito tra il Tricolore e i diversi, possibili assetti, centralizzati, de­centrati o al limite federali, del nostro Sta­to? In linea di principio nessuno, quando la bandiera – come è il caso dell’Italia – è espressione di un’identità nazionale uni­taria, prima che di un particolare assetto istituzionale statale. Se sia opportuno che lo Stato italiano si decentri e in quale mi­sura non è questione che possa intacca­re o revocare in dubbio il processo otto­centesco di unificazione e il Tricolore che ne è stato il simbolo identitario: lo dimo­stra il fatto che nessun fautore del fede­ralismo, anche più estremo, si sogna di auspicare il ritorno agli Stati anteceden­ti all’unità, la scomparsa di alcuni dei qua­li (basti pensare allo Stato della Chiesa) può davvero definirsi, per usare la nota e­spressione di Paolo VI, «provvidenziale». Se la questione del decentramento fede­rale – che riesce a porsi al centro del di­battito politico e parlamentare anche nel­l’attuale tormentata fase della vita pub­blica del nostro Paese – è arrivata a porre in questione il Tricolore, questo dipende, purtroppo, da due fattori, entrambi per­versi: dal perdurare dell’ideologia statua­listica, che vede, a torto, nello Stato e nel­la sua struttura burocratica centralizzata la migliore difesa dell’identità storica del Paese e dal dilagare di un’ideologia fede­ralista che è stata costruita sovrappo­nendo alle ragioni del decentramento fe­derale (da ritenere, a secondo dei punti di vista, ragioni buone o cattive, ma sempre e comunque ragioni politiche, non iden­titarie) quelle di un rivendicazionismo et­nico, che in Italia è assolutamente privo di fondamento. Se si fosse davvero bene insegnata nelle nostre scuole quella ma­teria fantasma che è stata l’«educazione civica» e se, attraverso di essa, si fosse riu­sciti a trasmettere alle giovani generazio­ni concetti elementari di dottrina dello Stato, come quelli cui mi sono appena ri­ferito, forse tanti toni del dibattito attua­le a favore o contro l’ideologia leghista apparirebbero per ciò che propriamente sono: dibattiti politico-istituzionali, a vol­te violenti ma politicamente legittimi, di­battiti che nulla hanno a che vedere con la nostra tradizione storica, come radice della nostra identità nazionale.

Bene quindi fa il presidente Napolitano a ricordare a tutti, con pazienza e costan­za, e proprio nel tempo che viviamo, che quello dell’identità del Paese è un bene prezioso e che la difesa della nostra ban­diera è ben più che la difesa di un’opzio­ne di partito o di governo. Auguriamoci che non ci si fermi mai, che non ci si fer­mi più, in quest’opera di alta e faticosa pedagogia nazionale. Di essa abbiamo as­solutamente bisogno.