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 2011  gennaio 22 Sabato calendario

LE POMPE FUNEBRI


Per capire com’è cambiata la nostra concezione della morte, ho telefonato alla più antica agenzia di pompe funebri di Milano. Il titolare era fuori ufficio, così ho chiesto a un vecchio e fedele
impiegato. Mi ha detto che esistono mode anche nel ramo funerali, che tra i costruttori di bare l’evoluzione è costante e che il cofano funebre utilizzato in Italia è molto ricercato tanto per il design, che ha punte di alto artigianato, quanto per l’impiego di materiali sempre più raffinati, perfino riciclati. «I
cofani più pregiati», ha aggiunto, «oggi, sono minimal». Gli ho chiesto di indicare qualcosa che è passato di moda nel suo campo. Ha risposto: «Be’, direi che non vanno più di moda i funerali sfarzosi, la gente ci tiene meno, non pensa più che il lusso sia indicativo della condizione del defunto. Credo che, un po’ come in altri settori, ci sia una generale contrazione della spesa, ma c’è stato anche un cambiamento culturale, da almeno dieci anni la gente non trova più giusto spendere molto
per la morte. Tenga presente che il nome stesso, “pompe funebri”, si riferisce allo sfarzo, la pompa è l’esibizione di un lusso esagerato».
Il minimalismo funebre può avere molte spiegazioni. Potrebbe essere un modo per nascondere la morte a un’epoca che non può più permettersi di guardarla. Oppure, potrebbe voler dire che in tempi barocchi, infestati di merci e desiderio, l’idea di spendere senza godere appare inaccettabile. Forse, invece, la sobrietà è una strategia incoscia per sottrarre almeno la morte all’invadenza del mercato, tracciando un confine oltre il quale è bene che il consumismo non si spinga.
Un’altra spiegazione potrebbe riguardare la fede nell’aldilà. In una vita ultraterrena crediamo sempre meno e, comunque, non gli attribuiamo più caratteri antropomorfi. Neppure i cattolici
sperano più nel Paradiso di Dante, e nessuno spera di conservare il proprio sembiante nella vita ulteriore. Quindi,
poiché con la morte l’identità svanisce, è assurdo che l’ultimo viaggio si svolga secondo i canoni che valevano in vita. Inoltre c’è la genetica che ristruttura in silenzio la nostra visione del mondo e rende implausibili molte vecchie credenze.
Il giorno prima di partire volontario per la guerra di Spagna dove sarebbe stato ucciso a soli 25 anni, il poeta omosessuale
Alistair Noon incontrò a Londra per caso un suo vecchio amante con il figlioletto di tre anni per mano. La sera gli fece recapitare a casa un mazzo di gigli, con un biglietto: «Mio caro Oliver, se oggi mi hai visto arrossire è perché guardando gli occhi del tuo bambino, così identici ai tuoi, ho pensato che la somiglianza
dei figli è la nostra unica anima». Presto, probabilmente, qualche santone divinizzerà il Dna come un’anima, eterna, ma
tramandabile e divisibile.
Già oggi, capita di riconoscere nel proprio corpo e nei suoi minimi gesti - un moto delle labbra, un piede che emerge dall’acqua nella vasca da bagno - la traccia dei morti che sopravvivono nei nostri geni. È una sensazione strana, di compagnia ed estraneità a se stessi, in cui l’identità si confonde con quella di chi ci ha preceduto. È come se dalle profondità del corpo venissero a galla polveri scampate alle pulizie del tempo, e ci si accorgesse di essere abitati dalle persone amate scomparse. Come se si intuisse che forse, quando qualcuno
muore, i suoi figli iniziano ad assomigliargli di più poiché i geni di chi va si accendono in chi resta. La vita che rimane diviene, da quell’istante, un tentativo di fare i conti con l’assenza e la permanenza, una danza silenziosa tra il distinguersi e l’assomigliare.