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 2011  gennaio 22 Sabato calendario

L’Irlanda torna a 150 anni fa Tutti in viaggio verso l’America - «Quando la Quercia d’Irlan­da salpò da Cork nell’ottobre del ’49,pensavamo diarrivare a New York nel giro di una setti­mana

L’Irlanda torna a 150 anni fa Tutti in viaggio verso l’America - «Quando la Quercia d’Irlan­da salpò da Cork nell’ottobre del ’49,pensavamo diarrivare a New York nel giro di una setti­mana. Ma dopo due giorni di viaggio ci informarono che sa­remmo andati a Montreal, in Ca­nada. Io avevo solo quaranta dollari, dissi al primo ufficiale, per caso la Irish Shipping mi avrebbe pagato il biglietto del treno da Montreal a New York? No, rispose lui, la società non era responsabile. Le navi da cari­co, aggiunse, sono le puttane del mare, farebbero di tutto per tutti. Un cargo è come il vecchio cane di Murphy, che fa un pez­zo di strada con qualunque va­gabondo ». Frank Mc Court, «Che paese, l’America», Adel­phi editore. Sessant’anni dopo, la storia raccontata da Frank Mc Court si ripete.Ma a ben vedere è dall’Ot­tocento che, a fasi cicliche, la sto­ria si ripete, e gli irlandesi si met­tono in rotta per le Americhe con il fagotto dell’emigrante sul­le spalle. Una volta - e i tempi di Frank Mc Court erano ancora «quella volta» - si partiva per fa­me, perché era andato male il raccolto delle patate, perché la paga di un operaio non bastava a sfamare una famiglia (dopo che una buona metà era svapo­rata al pub) e perché gli Stati Uni­ti, il Canada, visti da Dublino (ma anche dal Polesine o dalla Campania, se è per questo) sem­bravano davvero la terra pro­messa. Oggi, di fame non muo­re più nessuno, in Europa. E nes­suno di quelli in partenza per le Americhe, ora che la Tigre Celti­ca ha smesso da un pezzo di rug­gire viaggia su un piroscafo, in un ponte di terza classe, con una giacchetta rattoppata e una valigia di cartone. Ma la spinta alla fuga, lo spettro che all’alba del 2011 si allunga ancora una volta sull’Irlanda ha lo stesso profilo grifagno di quello che già altre volte buttò la sua ombra su Dublino e Limerick, su Cork, su Galway e su Belfast. Scappano i giovani, spinti dal­la crisi economica, dalle pro­me­sse di austerità del primo mi­nistro Brian Cowen e dalla disoc­cupazione, che l’anno scorso si è attestata al 13,5 per cento. E sa­ranno folla. Racconta il Wall Street Journal che uno dei più ac­creditati istituti di ricerca di Du­blino, l’Economic and Social Re­s­earch Institute, stima in 100 mi­la i giova­ni che tra l’aprile prossi­mo e fino a tutto il 2012, lasceran­no l’Irlanda. Numeri che confi­gurano un autentico esodo, vi­sto che stiamo parlando di una media di mille persone al mese, ovvero del 2 per cento della po­polazione dell’intera isola. Dove andranno? Andranno nel solito posto, dove già hanno fratelli, zii e una valanga di cugi­ni. Non sarà più la statua della Libertà, non sarà più Ellis Island, ad accogliere questa nuova ondata di immigrati. Essi sbarcheranno verosimilmente in un aeroporto al quale hanno dato il nome di un loro celebre conterraneo che è stato addirit­tura presidente, e nessuno li guarderà stavolta come dei pez­zenti. Però sarà lo stesso un’epo­pea, come quella che i loro pro­genitori hanno tracciato negli annali della storia americana con il loro lavoro, il loro genio, la loro capacità di sacrificio, la loro specificità, i loro celebri poliziot­ti e i loro malandrini. Pare che oggi siano 44 milioni (su una po­polazione di 300 milioni) i citta­dini americani di origine irlan­dese. Sicché non sarà ozioso do­mandarsi che cosa sarebbero stati gli Usa senza la loro massic­cia presenza; senza quella pode­rosa iniezione cattolica nel gran corpo protestante di una nazio­ne che mutò pelle, e carattere, grazie al melting pot, a quel cro­giuolo in cui tutti si mescolaro­no; ma in cui gli italiani, gli ebrei, gli irlandesi (nel bene e nel male) scrissero a lettere in­cancellabili la storia del più gran­de Paese del mondo. Furono loro, gli ultimi arriva­ti, quelli con le pezze al culo che diedero vita alle grandi organiz­za­zioni criminali che si afferma­rono al tempo del proibizioni­smo. Ma sarà anche il caso di ri­cordare che l’Irish Mob, la ma­fia irlandese, era radicata a Bo­ston, a New York, a Cleveland e a Chicago prima ancora che la parola Mafia, e il suo corredo di Padrini, risuonasse sul suolo americano. Gente svelta, dutti­le, intraprendente, come quel fa­moso trafficante di liquori che faceva di nome Kennedy, ed era il padre di una Dinasty politica piuttosto importante che co­minciò con uno che si chiama­va John, passò per uno che si chiamava Robert e si chiuse, un po’ malinconicamente, con uno che si chiamava Ted.