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 2011  gennaio 22 Sabato calendario

Ci sarà Achille Mauri, domenica 23 a Venezia, ad accogliere gli allievi della Scuola per Librai che porta il nome della sua famiglia: per una settimana discuterà con loro sul futuro del libro nell’era digitale

Ci sarà Achille Mauri, domenica 23 a Venezia, ad accogliere gli allievi della Scuola per Librai che porta il nome della sua famiglia: per una settimana discuterà con loro sul futuro del libro nell’era digitale. Nel 2006 ha raccolto il testimone dal fratello Luciano, nel solco della continuità famigliare: presidente delle Messaggerie, il più grande distributore italiano, «senza nostalgia» della Pontaccio, la sua casa di produzione romana per la tv. Non è più interessato al piccolo schermo: «E’ uno strumento superato - dice - sai già che cosa ti aspetta e non trovi niente. Al contrario YouTube ti apre finestre sull’ignoto». L’unica cosa che un po’ gli spiace è di non essere mai riuscito a realizzare un film dal Piccolo Principe di Saint Exupéry, uno dei libri della sua vita. «Ho armadi colmi di sceneggiature, ci ho pensato per vent’anni», confessa. Ora però pensa ad altro. Dalle Messaggerie è nato un gigante editoriale, il gruppo Gems (con la famiglia Spagnol), che comprende una dozzina di case editrici da Longanesi a Bollati-Boringhieri, più la spagnola Duomo, ed ha partecipazioni in Chiarelettere e Fazi. Ma la vocazione della casa madre è sempre quella di distribuire libri attraverso tutti i possibili canali (Internet compresa, con la grande libreria on-line Ibs), assicurare il funzionamento del sistema vascolare del mercato e della cultura. Tutto cominciò quando Umberto Mauri, il padre, prese in gestione la società nata a Bologna nel lontano 1914, e ne fece un gigante. Era partito da un’agenzia letteraria, che però non rendeva troppo bene; decisivo fu l’incontro con Valentino Bompiani. Divennero cognati, inseparabili Ma ci fu un incontro, altrettanto importante, con qualcuno che faceva tutt’altro mestiere. «Ed era un lettore accanito: il banchiere Enrico Cuccia. Abitava proprio qui, dove ora c’è la direzione delle Messaggerie, in via Conservatorio. Era un giovane funzionario molto stimato. Con mio padre si intesero subito. Fu un sodalizio fra i più importanti». In che senso? «Credo siano stati loro a inventare almeno per il mondo del libro la "tratta" bancaria, cioè l’anticipo che la banca versa in acconto sull’incasso. Mio padre girava l’Italia in treno, soprattutto il Sud in cui credeva moltissimo - erano i tempi in cui si andava trovare Benedetto Croce. E dalle stazioni telefonava ai librai, chiedendo quanto avevano venduto. Segnava tutto sul suo pacchetto di sigarette, le mitiche Turmac, e tornato a Milano lo consegnava in amministrazione. Poi Cuccia emetteva la tratta, cioè gli pagava l’incasso che in novanta giorni si doveva realizzare». Stressante? «Ma anche stimolante. Quando lavoravo a Roma, alla libreria Bocca - che faceva parte di una catena già delle Messaggerie -, avevo clienti molto importanti, per esempio Luchino Visconti. Andavo periodicamente in America, a rifornirmi di libri bellissimi. Una volta feci un’intera vetrina con il mio ultimo bottino, Visconti se ne entusiasmò e comprò tutto: erano 27 milioni, negli Anni Cinquanta» Una cifra enorme. «Che ovviamente non fu pagata subito. A quel punto ero io a dover essere sicuro di rientrare in novanta giorni. Non ero più in debito con mio pare, ma con Cuccia. Non so se mi spiego...». Non tutti avevano una maestro come suo padre. Nasce di qui l’idea della vostra scuola per librai? «La molla fu la morte prematura di nostra sorella Elisabetta. Eravamo sconvolti, per superare il dolore ci inventammo un rituale: una volta alla settimana tutta la famiglia disputava una partita di calcio nel cortile della chiesa di San Simpliciano. Un cortile tutto sassi. Fu durante una di queste partire che Valentino Bompiani ebbe l’idea: anziché sbucciarci le ginocchia, facciamo una scuola per librai». Giocava anche lui? «Per la verità il suggerimento venne da bordo campo». La scuola nacque nell’83, guidata da suo fratello Luciano, in memoria di Elisabetta e di vostro padre Umberto nel frattempo scomparso. In che senso era necessaria? «Perché si rivolgeva a un settore dominato allora più dalla passione che dalla tecnica. Tant’è vero che in 28 anni abbiamo formato 4000 librai, e abbiamo dissuaso altrettanti candidati dall’intraprendere questa attività». Quant’è cambiata la figura del libraio? «Una volta era spesso il risultato di una scelta in fondo comoda e secondaria, maschile. Oggi sono sempre più le donne, laureate e preparatissime. Però ritengo che, ancor più della scuola, la professionalizzazione è stata propiziata proprio dalla distribuzione: che è ormai talmente sofisticata da fornire al libraio un sostegno ineguagliabile. Si può fidare». In che senso? «Le faccio un esempio: un libraio per quanto attento difficilmente sa quanto sta vendendo. La distribuzione glielo dice in modo assai preciso». Quali sono gli errori gravi in cui può incappare? «Aprire nel posto sbagliato; sbagliare l’assortimento; pensare che non sia un mestiere faticoso. Anche solo tenere i libri puliti è già una gran fatica». Nel 2010 le grandi catena hanno superato gli indipendenti, conquistando la maggioranza del mercato italiano. Crescono anche le librerie on line. E ora potrebbe affermarsi l’e-book. C’è ancora spazio per medi e piccoli librai? «Non c’è dubbio che una grande libreria di catena, sulle prime, toglie vendite agli altri. Però siamo un Paese dove metà della popolazione non legge, e un minoranza legge moltissimo. Se aumenta la lettura aumenta lo spazio per tutti. Finora è aumentata. E il pubblico è sempre imprevedibile: ha mai visto tanti libri di cucina in testa alle classifiche come in questo periodo? Sono convinto che la libreria del supermercato sia un presidio del libro esattamente come la piccola libreria, e che Internet sia un concorrente da affrontare. La libreria materiale non ti offre solo ciò che vuoi tu, ma cose che quando sei entrato non ti immaginavi nemmeno. E’ un grande vantaggio sull’on-line». Lei è affascinato da questa possibilità infinita anche come lettore? «Direi di sì. I miei libri sono quelli che incontro». Le scoperte? «E le svolte. Per esempio, come le dicevo, Il piccolo principe . Avevo 13 anni quando mia zia lo traduceva e ne parlava con me, che frequentavo le scuole in Francia. Ma non posso dimenticare Le memorie dell’incoscienza , di Ottieri Ottieri: l’ho letto quando lui era ammalato, come se volessi in qualche modo ereditare il suo immenso cervello. E aggiungerei Cecità , di Saramago, dove la protagonista, di cui mi sono puntualmente innamorato, non è mai nominata né descritta». Ha provato l’amore da lontano dei trovatori? «In qualche modo è andata così. Potrei citare molti altri autori, soprattutto saggisti, che sono stati importanti, ma forse non come questi tre libri. Potrei citare Roland Barthes, ma mi ha dato una delusione» Ci dica. «Molti anni fa, a Milano, durante una cena a casa Feltrinelli. Io ero un giovanotto o poco più, lui il grande intellettuale. Parlò sempre con me, solo con me, e ne fui lusingatissimo. Mi sentivo così intelligente. Poi, a fine serata, arrivò l’invito per un weekend a Tunisi...». Voi due soli. «Ebbene sì. Ci rimasi un po’ male»