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 2011  gennaio 22 Sabato calendario

A mani alzate contro i nazisti - Tutti conoscono la celebre fotografia scattata nel 1943 nel ghetto di Varsavia, espugnato dalle SS comandate dal generale Stroop: il bambino con le mani alzate che precede un gruppo di donne e bambini sorvegliati dai soldati tedeschi

A mani alzate contro i nazisti - Tutti conoscono la celebre fotografia scattata nel 1943 nel ghetto di Varsavia, espugnato dalle SS comandate dal generale Stroop: il bambino con le mani alzate che precede un gruppo di donne e bambini sorvegliati dai soldati tedeschi. Si tratta di un oggetto nomade che per oltre sessant’anni si è palesato davanti agli occhi degli abitanti del Vecchio Continente, e non solo loro, fino a diventare in assoluto la più famosa icona dell’Olocausto. I primi a vederla sono stati gli estensori del rapporto cui lo scatto, realizzato da un fotografo tedesco, era destinato: i superiori di Stroop e Himmler. Volevano mostrare la repressione dell’insurrezione ebraica. Frédéric Rousseau ha raccontato in un libro importante, Il bambino di Varsavia , la storia di questa icona, partendo dalle due copie del rapporto sopravvissute dopo la guerra, e diventate una prova nel processo contro il generale delle SS. Una storia complessa. Nella prima parte del saggio Rousseau ricostruisce le vicende dello scatto. Un lavoro esemplare; tuttavia è la seconda parte del libro a essere particolarmente interessante: un vero e proprio saggio sull’uso politico delle immagini. Come e perché è accaduto che l’immagine del bambino sia divenuta l’icona dello sterminio ebraico, una delle immagini più «viste» della seconda metà del Novecento? Non c’è dubbio, il bambino al centro dell’istantanea buca l’inquadratura e chiunque la guardi è attirato della sua figura. Ma com’è possibile che i nazisti, che l’avevano scelta per l’album, non si siano resi conto del suo valore iconico? Basta che un’immagine sia straordinaria perché s’imponga all’attenzione di tutti? Ogni fotografia dipende sempre dal contesto culturale in cui è guardata; tanto è vero che l’autore ci rammenta come questa foto fosse considerata dalle SS una delle immagini più naziste dell’album; e non è stata neppure stimata un documento su cui basare l’accusa contro i nazisti nei tribunali. Dopo la fine del conflitto mondiale, lo spazio della memoria è stato occupato dai resistenti, dai combattenti politici. La loro memoria ha costituito la base della prima memoria dei campi. Primo Levi lo spiegava molto bene già nel 1955, in un articolo apparso in una rivista torinese; anche la pubblicazione di Se questo è un uomo ha subito le conseguenze della memoria resistenziale, per quanto il libro del chimico torinese fosse già universale: non è dedicato solo alla memoria del solo sterminio ebraico. In Francia, punto di osservazione dell’autore, dopo la guerra si «voleva vivere nel tempo degli eroi e in quello delle vittime». Le vittime sono, almeno sino agli Anni Sessanta, gli ebrei che si sono lasciati deportare senza ribellarsi. Eppure l’immagine di Varsavia è quella di un gruppo di rastrellati dentro l’eroica rivolta del ghetto ebraico. Per lungo tempo in Israele ci si è vergognati dello sterminio; il punto di svolta, si è soliti sostenere, avviene con il processo Eichmann. Rousseau insegue la fotografia tra studi, copertine, film, documentando come l’incrinatura del mito dei combattenti antinazisti abbia aperto la strada all’ icona del bambino. Un processo lungo che si compie per vie e luoghi diversi, a partire da un libro di Gerhard Schoenberner, La stella gialla , del 1960. Il cambiamento di paradigma è evidente: in primo piano è ora l’emotività, e il bambino è perfetto per incarnarla. A Rousseau interessa comprendere come dall’icona Anna Frank, che ha segnato gran parte del dopoguerra, sino agli Anni Settanta, si è passati a quella del bambino di Varsavia attraverso un viaggio carsico che si incrocia con i problemi politici di Israele, il cambio del paradigma dello sterminio legato alle guerre mediorientali e alla necessità dello Stato ebraico di rompere un accerchiamento che non è solo militare. Nel 1987, poi, la foto del bimbo appare isolata dal contesto: un simbolo. E dopo Srebrenica, nel luglio 1995, è al centro della bandiera stellata della Comunità Europea; è diventata il testimone universale delle vittime della Shoah, e non solo. L’immagine si è slegata totalmente dalla storia specifica del suo soggetto. Questo procede di pari passo col cambiamento dell’atteggiamento culturale verso l’infanzia, e in particolare quella maltrattata. Anche il Vietnam, la foto della bimba nuda che corre in primo piano dopo un bombardamento americano al napalm, contribuisce al cambio di lettura. La forza della foto sta nella sua capacità di comunicare l’enormità del crimine senza mostrarlo: permette di immaginarlo. Ora siamo entrati nell’età della vittima. La vittimizzazione diventa il paradigma dominante, e non solo rispetto alla Shoah, ma in ogni questione politica e sociale; è il cuore stesso della nuova memoria collettiva, dell’immaginario sociale. La pedagogia attraverso l’orrore è stata sostituita dalla pedagogia attraverso l’emozione: «ora il cuore è il solo a essere toccato». L’immagine del rastrellamento nazista ha cessato di essere un documento, di appartenere a un archivio. Ogni memoria è il prodotto di una costruzione: sociale, culturale e politica. Una vicenda che fa riflettere sul nostro modo di pensare il rapporto col passato, quello più tragico e difficile da dimenticare.