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 2011  gennaio 21 Venerdì calendario

YUAN 1


Il presidente cinese Hu Jintao è arrivato a Washington con una provocazione per il futuro degli equilibri monetari internazionali: «L’attuale sistema valutario (che poggia sul dollaro, ndr) è un prodotto del passato», ha detto in una intervista al Wall Street Journal e al Washington Post. [1]
Hu Jintao sa di essere l’azionista di riferimento del cosiddetto G2 e non ha nascosto la preoccupazione cinese per il destino degli oltre 900 miliardi di dollari investiti nel debito statunitense. Giampaolo Visetti: «Hu porrà a Obama le tre questioni-chiave che Pechino intende iniziare a risolvere: la cessione dell’alta tecnologia delle imprese americane alle industrie cinesi, il ritiro delle forze armate Usa dall’Asia e il via libera a un nuovo ordine monetario internazionale che nel medio periodo veda lo yuan affermarsi quale valuta di riferimento assieme a dollaro ed euro. Sia Hu che Obama, in una fase di massima incertezza globale, hanno interesse a non travolgere il precario equilibrio di un "temporaneo G2 necessario", secondo la definizione del premier Wen Jiabao». [2]
Questa sarà l’ultima visita di Stato del presidente cinese negli Stati Uniti. Ilaria Maria Sala: «Alla fine del 2012 sarà consumata la successione e Hu, dopo dieci anni al timone, lascerà il posto a un nuovo presidente, la "quinta generazione" di leader comunisti dal 1949». [3]
George Soros: «Il mondo sta assistendo a un rapido passaggio di consegne tra Stati Uniti e Cina per quanto riguarda il potere e l’influenza a livello mondiale. Gli Usa sono però alle prese con la crisi del proprio sistema finanziario, la Cina continua a funzionare efficacemente e a ottenere ampi surplus commerciali». [4]
La Guerra sui cambi. La querelle tra Usa e Cina è iniziata nel 2005. Washington denuncia che lo yuan sia sottovalutato dal 15 al 40 per cento del suo reale valore e accusa Pechino di manipolare il cambio. Un modo di dare alle imprese cinesi un vantaggio competitivo scorretto nell’arena del commercio internazionale. La Cina ha rotto l’aggancio valutario con il dollaro a giugno e da quel momento lo yuan si è rivalutato di circa il 3,5 per cento. La Camera americana ha approvato a settembre una legge che prevede la possibilità di considerare la svalutazione competitiva come una sovvenzione, un’ipotesi che permette al Dipartimento del commercio Usa di porre dei dazi specifici contro le merci cinesi. [5]
Il cambio dello yuan. Anna Guaita: «È la spina nel fianco degli americani (e non solo), che accusano Pechino di tenere la moneta artificialmente bassa per favorire le esportazioni». [6]
Stati Uniti ed Europa vogliono che lo yuan si apprezzi. Uno yuan debole favorisce la Cina in tre modi: rende più competitive le sue merci all’estero, rende più costose le merci straniere in Cina e incentiva le imprese internazionali a spostare la produzione nel paese. Con la rivalutazione dello yuan, tutte le aziende che esportano in Cina ci guadagneranno a scapito delle imprese che producono in Cina. Naturalmente, molto dipenderà dall’entità dell’apprezzamento: una rivalutazione del 20 per cento - ha avvertito il premier cinese Wen Jiabao - costerebbe milioni di posti di lavoro alla Cina e potrebbe innescare disordini sociali. Il cambio dello yuan è fissato dalla banca centrale cinese (al 19 gennaio 2011: 1 yuan=0,15 dollari; 0,1124 euro). Fino al luglio 2005 era in vigore un regime di cambio fisso con il dollaro, poi è stato introdotto un sistema di fluttuazione controllata: lo yuan si può apprezzare o deprezzare ogni giorno di non più dello 0,5 per cento rispetto a un paniere di valute. Pechino non ha mai reso nota la composizione del paniere: si sa solo che è composto da dollaro, euro, yen e won come valute principali e da altre monete. [7]
Secondo alcuni osservatori parlare di guerra valutaria è un’esagerazione, ma non una sciocchezza. Riccardo Sorrentino: «Le politiche monetarie messe in campo dopo la crisi creano di fatto, come conseguenza forse non sempre voluta ma comunque ineludibile, un conflitto tra valute, quasi una successione di "svalutazioni competitive" che prevede almeno un perdente costretto ad apprezzarsi almeno fino a quando non riesce a spostare il peso su qualcun altro. Il risultato, come negli anni 30, è un continuo disordine. È per questo motivo che molti economisti, come Martin Wolf, chiedono un accordo sul tema; lo fa persino Barry Eichengreen dell’Università di Berkeley che pure sottolinea come i deprezzamenti aiutino e spesso sostituiscano politiche monetarie espansive». [8]
Giorgio Barba Navaretti: «La quasi parità con il dollaro non solo alimenta il surplus commerciale e surriscalda l’economia, ma favorisce anche l’ingresso d’investimenti finanziari soprattutto dagli Usa, alimentando la crescita delle riserve e la creazione interna di moneta. Una rivalutazione del cambio permetterebbe di attutire questo effetto. E per quanto riguarda le esportazioni, la perdita di competitività attraverso una rivalutazione dello yuan è meno grave che attraverso la crescita dei prezzi interni. Se il cambio si rafforzasse e i prezzi rimanessero stabili, il potere d’acquisto delle fasce più deboli sarebbe comunque tutelato. Non solo, ma i beni importati costerebbero meno, riducendo anche la pressione dell’aumento dei corsi delle materie prime». [9]
Il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, col supporto trasversale di democratici e repubblicani, ha attaccato la Cina accusandola di non fare abbastanza per rivalutare lo yuan. L’obiettivo è quello sbagliato. Wall Street journal: «Legare lo yuan al dollaro non è manipolare la valuta. Estonia e Bulgaria lo fanno con l’euro, e nessuno li accusa. La scorrettezza vera è la sterilizzazione: cioè quando un’azienda straniera compra o investe in Cina scambia dei dollari con degli yuan. Il governo cinese compra a sua volta quei dollari con degli yuan. Invece di rimetterli in circolo, però, li toglie dal sistema, vendendo bond e alzando i requisiti di capitale. Così evita che i prezzi salgano e mantiene il suo surplus commerciale col mondo». [10]
Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group (centro di ricerche americano focalizzato sull’Asia): «Ci sarebbero buone ragione economiche per rivalutare lo yuan, anche dal punto di vista cinese. Per tenere a bada l’inflazione per esempio. Ma non lo faranno perché la costituency degli esportatori è, ormai, una forza irresistibile in Cina. Pesano più delle altre forze che operano nel Paese e infinitamente più dei moniti del ministro del Tesoro Usa Geithner, delle esortazioni di Obama e anche delle minacce di ritorsioni protezioniste da parte del Congresso Usa». [11]
«Il dollaro resterà la valuta primaria fino a quando il renminbi (altro nome della moneta cinese yuan, ndr) non sarà una valuta interamente convertibile. Non so quando questo accadrà: non c’è un calendario che fissi la marcia. Ma la marcia c’è. La piena convertibilità del renminbi è un fatto ineluttabile perché le riforme in Cina devono continuare» (Cheng Siwei, già ministro e vicepresidente dell’Assemblea del popolo cinese e oggi preside della Scuola di management all’Accademia delle scienze di Pechino). [12]
Paul Krugman: «La Cina sta rovesciando sui mercati di tutto il mondo esportazioni a prezzi artificialmente bassi, cioè pratica una politica commerciale decisamente predatoria, un comportamento che la minaccia di sanzioni dovrebbe prevenire». [13]
Il governo degli Stati Uniti dovrebbe essere più cauto nel criticare la Cina per la politica monetaria. Alberto Alesina e Luigi Zingales: «Si tratta di un comportamento ipocrita, che offre oltretutto ai cinesi modo di reagire assai facilmente. Al contrario, gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero spingere il governo cinese nella direzione della libertà. Accusare la Cina comunista di sfruttare i lavoratori ha del paradossale. Ma proprio per questo spiazza la Cina da qualsiasi argomento di difesa. Non è solo un obbligo morale, è anche una necessità economica per la stabilità mondiale». [14]
La Banca mondiale prevede che il boom delle esportazioni dei prodotti cinesi daranno un contributo positivo alla crescita. Dice Martin Wolf: «L’economia dall’espansione più rapida del mondo esporterebbe disoccupazione (...) Ne concludo che lo yuan è sottovalutato, un fatto pericoloso per la sostenibilità della ripresa globale, e che fin qui gli interventi della Cina non hanno fornito una soluzione durevole. Ne concludo anche che un riequilibrio è la condizione necessaria di una ripresa sostenibile, che al riequilibrio sono necessari cambiamenti di competitività, che una rivalutazione reale dello yuan è necessaria a cambiamenti di competitività, e che un rialzo della moneta è necessario per una reale rivalutazione, tenuto conto del desiderio dei cinesi di frenare l’inflazione». [15]
Federico Rampini: «Negli ultimi mesi Pechino ha autorizzato 70mila delle sue aziende esportatrici a farsi pagare in renminbi. Si stima che entro pochi anni oltre il 20 per cento delle importazioni cinesi (2.300 miliardi di dollari) potrebbero essere pagate così. Un esperto come Barry Eichengreen prevede che entro un decennio al posto della centralità del dollaro ci sarà un nuovo sistema monetario tripolare fondato su dollaro, euro, renminbi. Per quanto riguarda il trading a New York, la Bank of China pone solo un limite di 4mila dollari al giorno sulle operazioni dei piccoli correntisti, onde scoraggiare la speculazione individuale. Ma non ci sono limiti per le imprese, che possono effettuare transazioni di qualsiasi ammontare fra renminbi e dollaro». [16]
La Stampa: «A Hong Kong, la mania delle Ipo (la quotazione delle aziende in Borsa, ndr) fa sì che un modesto accordo di 500 milioni di dollari possa facilmente attirare 50 miliardi di dollari di ordini. Ma a Hong Kong gli investitori devono pagare in anticipo tutte le azioni che ordinano, non soltanto quelle che alla fine ricevono. Con appena 33 miliardi di dollari di depositi in yuan a Hong Kong alla fine di novembre, la domanda di Ipo in yuan sarebbe molto limitata. I controlli dei capitali della Cina sono un altro ostacolo. Le Ipo in yuan piacerebbero molto alle società cinesi che non possono quotarsi in Cina oppure agli stranieri che vogliono capitali da investire in Cina. Ma per riportare yuan in Cina è necessaria un’autorizzazione ufficiale che può richiedere mesi, se non anni». [17]
Già nel 2008, a un anno dall’inizio della crisi finanziaria internazionale, il 53 per cento delle imprese di giocattoli cinesi era finito in bancarotta: alzare ora il valore della valuta le soffocherebbe ulteriormente. William Overholt, professore della Harvard Kennedy School: «I cinesi temono innanzitutto di penalizzare gli esportatori, che già hanno sofferto per la crisi internazionale. Per non parlare del fatto che la banca centrale ha le riserve principalmente in dollari: un apprezzamento del renminbi penalizzerebbe anche lei». [18]
Economia reale cinese/1. Racconta Luca Vinciguerra: «Una ragazza in salopette tira fuori dai tasconi due pacchi di banconote con il faccione di Mao e le scaraventa sul bancone. Cinquecento pezzi, segnala il display della cassiera, cioè 50mila yuan tondi tondi. "Quella signora - dice una funzionaria della sede centrale della Hong Kong Shanghai Bank - viene qui tutte le settimane. Negli ultimi mesi siamo stati presi d’assalto da clienti così. E in sede ci sono migliaia di pratiche di apertura di nuovi conti in yuan da smaltire". Tutti pazzi per lo yuan, dunque. Ed è facile capire perché. Da giugno, quando la Cina ha sganciato la sua moneta dal dollaro, il renminbi si è apprezzato di oltre il 2 per cento sul biglietto verde americano. Ma il bello deve ancora venire, pensano a Hong Kong, scommettendo sulla rivalutazione dello yuan». [19]
Economia reale cinese/2. Con 300 milioni di persone che fumano la Cina è il paese con più fumatori del mondo. Ogni anno in Cina muoiono 1,2 milioni di persone per le malattie derivate dal tabacco. Un pacchetto di sigarette in Cina costa in media 5 yuan, l’equivalente di 69 centesimi di dollaro. [20]
Economia reale cinese/3. La speculazione, gonfiata dall’inflazione sempre più marcata in territorio cinese, sta cambiando le regole del gioco: se prima i vini europei più pregiati erano uno status symbol per i nuovi ricchi, ora sono un bene rifugio, da chiudere in cassaforte o da rivendere sulla piazza di Hong Kong. È probabile che il piacere di un vino eccellente sarà negato ancora a molti palati, finché, tra gli scossoni delle schermaglie tra dollaro e yuan, la Banca centrale di Pechino non riuscirà a governare i tassi d’interesse. [21]
Note: [1] Mario Platero, Il Sole 24 Ore 18/1; [2] Giampaolo Visetti, la Repubblica 17/1; [3] Ilaria Maria Sala, La Stampa 18/1; [4] Paolo Zucca, Plus24 20/11/10; [5] Il Sole 24 Ore 16/1; [6] Anna Guaita, il Messaggero 19/1; [7] Il Sole 24 Ore 25/9/2010; [8] Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 30/9/10; [9] Giorgio Barba Navaretti, Il Sole 24 Ore 16/1; [10] Wall Street Journal, 17/09/10; [11] Massimo Gaggi, Corriere della Sera 19/1; [12] Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 18/1; [13] Paul Krugman, Il Sole 24 Ore 21/8/10; [14] Alberto Alesina, Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 9/12/10; [15] Martin Wolf, Il Sole-24 Ore 7/4/10; [16] Federico Rampini, la Repubblica 13/1; [17] Wei Gu, La Stampa 18/12/10; [18] Morya Longo, Il Sole 24 Ore 7/1/10; [19] Luca Vinciguerra, Il Sole 24 Ore 26/10/2010; [20] Wall Street Journal, 7/01/; [21] Marco Pedersini, Il Foglio 10/12/10.

AGGIORNAMENTO


Paolo Guerrieri: «L’attuale sistema monetario è destinato a durare ancora anni. A breve termine non si vedono valute in grado di rimpiazzare il dollaro. Si potrà arrivare al massimo a un aumento del ruolo dei diritti speciali di prelievo (DPS) con effetti solo marginali e associati a prevedibili modifiche nella composizione del paniere di valute su cui sono oggi sono basati i DPS a favore di yuan e yen, per esempio. Diverso è guardare a un orizzonte di medio lungo termine, ove è scontato che al consolidamento dell’assetto multipolare dell’economia mondiale si accompagnerà un sistema monetario a più valute di riserva, e tra queste il dollaro, l’euro e il renminbi. Sui tempi tutto dipenderà dalla durata del processo di internazionalizzazione della moneta cinese - appena iniziato - che deve diventare interamente convertibile. Non meno di dieci-quindici anni. [A]
[A] Tonia Mastrobuoni, Il Riformista 20/1

La Stampa: «Poiché è l’economia il terreno di incontro fra Hu Jintao e Barack Obama, i maggiori rischi di crisi vengono dalla disputa sullo yuan. Washington ritiene la quotazione attuale inferiore del 10 per cento rispetto al reale valore di mercato, visto che «l’economia cinese vale un terzo di quella americana» come dice il presidente Usa. E il leader del Congresso parlano di una «concorrenza sleale» che pesa sul deficit e fa salire il debito. Obama non poteva dunque evitare l’affondo sullo yuan contro Hu ma per disinnescare lo scenario di una crisi monetaria ha una strategia che punta a convincere Pechino facendo leva sulla moltiplicazione degli scambi bilaterali. Quando Obama definisce la Cina «uno dei nostri maggiori mercati di esportazioni» e loda l’impegno di Hu Jintao «ad aumentare i consumi interni» vuole sottolineare come un dollaro più competitivo e il conseguente acquisto di beni «made in Usa» da parte dei cinesi può aiutare ad aumentare il tenore di vita degli oltre 1,2 miliardi di abitanti della Repubblica popolare, contribuendo così a stabilizzare la crescita nazionale. Hu è consapevole dei pericoli connessi allo squilibrio nei consumi fra le metropoli e l’entroterra contadino ma davanti alla richiesta di rivalutare lo yuan esita perché ha anche un’altra agenda: l’affermazione della valuta nazionale come moneta di scambio sui mercati globali. Per attirare capitali, commerci e investimenti Hu ha bisogno di uno yuan forte ed è proprio la debolezza del dollaro a renderlo tale. A completare il quadro del contrasto di interessi c’è la pressione del Congresso su Obama affinché crei posti di lavoro in America: fino a quando lo yuan resterà debole, le aziende Usa saranno indotte a spostare gli impianti in Cina. [B]
[B] La Stampa 20/1

Le richieste sullo yuan. Il governo cinese «è intervenuto con forza sullo yuan» ma servono «ulteriori aggiustamenti» nel tasso di cambio della moneta, che resta sottovalutata. Obama lo ha detto senza mezzi termini: «Vogliamo che il suo valore sia guidato dal mercato». In Cina, ha aggiunto, una nuova politica sullo yuan farebbe «aumentare la domanda interna e allentare le pressioni inflazionistiche». [C]
[C] il Sole 24 Ore 20/1