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 2011  gennaio 21 Venerdì calendario

YUAN 2


Barack Obama è uscito quasi a mani vuote dall’incontro col presidente cinese Hu Jintao, capo di un paese che possiede il 21% di tutti i debiti esteri del Tesoro Usa (850 miliardi di dollari). Dal punto di vista economico aveva due obiettivi, la rivalutazione dello yuan e l’apertura del mercato cinese alle imprese Usa, su cui non ha ottenuto nulla. Le aziende cinesi hanno firmato 70 contratti per 25 miliardi di dollari in importazioni da 12 stati americani. Inoltre sono stati siglati 12 contratti di investimento per un valore di 3,24 miliardi. La Boeing ha ricevuto un ordine da 19 miliardi di dollari per 200 velivoli che saranno consegnati fra il 2011 e il 2013 che contribuirà al sostentamento di 100mila posti di lavoro in tutto l’indotto. In totale si tratta di circa 45 miliardi di dollari di acquisti che dovrebbero creare negli Stati Uniti 235.000 posti di lavoro (contro i due milioni cancellati dal 2008 causa outsorcing in Cina). Obama però non ha molto di cui vantarsi: il contratto con la Boeing era in fase di negoziazione dal 2007, i jet erano già nel “carnet” degli ordini della Casa aeronautica. Quanto al renminbi, il presidente statunitense ha ribadito al collega cinese che è sottovalutato, «dovete lasciare che la sua parità di cambio sia determinata dai mercati», Hu Jintao gli ha risposto che «non è quello il problema, alla radice degli squilibri commerciali sta il fatto che noi siamo più produttivi di voi».

Nell’ultimo anno gli Usa hanno importato merci cinesi per 296 miliardi di dollari, esportando per soli 69. A dicembre il surplus della bilancia commerciale cinese è però sceso: 13,1 miliardi di dollari contro i 21 previsti e i 22,9 di novembre. Sempre a dicembre, per la prima volta in cinque mesi, la crescita manifatturiera cinese ha subito un rallentamento. In un paese che cresce a un ritmo del 10% l’anno, il maggior rischio è l’inflazione. Obiettivo del governo contenerla sotto al 3%, da mesi cresce a ritmi record: 3,6% a settembre, 4,4 ad ottobre, 5,1 a novembre (il livello più alto degli ultimi due anni e mezzo). Per contenere l’aumento, il governo di Pechino punta ad aumentare la produzione agricola e a ridurre il costo di carbone e gas. Nell’ultimo mese dell’anno l’inflazione è scesa al 4,6%, e un altro calo dovrebbe essere registrato a gennaio per effetto dell’innalzamento dei tassi d’interesse varato il giorno di Natale (il secondo in tre mesi).

In Cina sono convinti che quello del cambio sia un falso problema. Il ministero del Commercio di Pechino sostiene che il 90% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono prodotte da imprese non cinesi. Una ricerca della University of California ha mostrato che sul valore nominale di un iPod assemblato in Cina – circa 300 dollari – solo 4 finiscono in tasche cinesi, mentre la quota maggiore va a designer, fornitori di componenti e venditori residenti altrove. Secondo l’agenzia Xinhua nel 2009 il 55,9% dell’export cinese è stato prodotto da aziende straniere con impianti in Cina, per gli articoli high-tech la percentuale sale all’83%, per quelli elettronici al 75%. Secondo questa tesi, un calo delle esportazioni cinesi penalizzerebbe soprattutto gli occidentali che investono in Cina, in testa gli americani. Tan Yaling, docente di finanza all’Università di Pechino: «Il basso costo del lavoro in Cina permette alle imprese straniere di tagliare i salari e aumentare i profitti. Ironicamente, i profitti crescenti finiscono nelle tasche dei boss stranieri e la Cina si becca le critiche per gli squilibri commerciali».