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 2011  gennaio 21 Venerdì calendario

RENE’ RIVEDE QUEI DELITTI E SCOPPIA IN LACRIME: «SONO PENTITO, DAVVERO» —

Il primo momento di commozione è per il suo amico Francis Turatello, «un uomo molto duro e molto dolce, ucciso da gente che non lo valeva e per questo lo temeva» . Ma è quando sullo schermo scorrono le immagini della morte del dottor Premoli che Renato Vallanzasca cede al pianto, per un omicidio che non ha commesso. «Premoli fu ucciso da due uomini della mia banda. Era un bravo medico. Era andato a far nascere un bambino, aveva ancora le mani sporche del sangue del parto, e noi abbiamo versato il suo. Non l’ho mai detto; ma oggi sono davvero pentito. Non nel senso giudiziario; nel senso che la parola pentimento ha nella Bibbia. Provo uno struggimento interiore. Un rimorso per le vite degli altri. I compagni che non ci sono più; le vittime che abbiamo fatto sul nostro cammino. Per questo non voglio che nessun giovane getti via la sua vita, come ho fatto io» .
Aveva seminato molto dolore, commesso gravi crimini. Eppure era diventato una star, Renato Vallanzasca. Nel film si vedono le foto erotiche che il bandito riceveva in carcere, e le lettere: «Mio marito sta dormendo e io sono qui, sveglia, che penso a te…» . Erano davvero così, quei messaggi? «Erano peggio. Per molte italiane ero diventato il simbolo della trasgressione. Del male. Ed ero un uomo senza futuro, condannato alla galera sino alla morte; per giunta, uno che non cantava, che aveva dimostrato di tenere i segreti. Così cominciarono a scrivere a me cose che non avrebbero detto neppure al confessore. Da una parte, mi davano coraggio: senza quelle lettere sarei impazzito. Dall’altra, mi spalancavano un abisso. Ho capito quant’è fondo l’animo umano» . Nel film Vallanzasca sposa una delle sue fan, Giuliana, scelta quasi a caso. «Andò davvero così. Lei era giovane, carina. Quasi tutte erano ragazze borghesi, “ normali”. Io avevo conosciuto le donne della malavita e le prostitute, e mi resi conto che la moralità non dipende dal ceto sociale, anzi» . Passano altre immagini: la ressa dei giornalisti per carpire una sua parola, i titoli sui quotidiani, le copertine dei settimanali. «Ero diventato una leggenda metropolitana. Mi attribuirono tre rapine nello stesso giorno, a Verona, a Latina e a Palermo; avessi partecipato almeno a una… Riuscii a farmi condannare in tutti e tre i processi. Un po’ mi ero calato nella parte, un po’ mi costruivano addosso un personaggio che non ero io. Spuntavano preti che raccontavano di avermi avuto come chierichetto, io che non sono mai andato in chiesa: a Dio non ho mai creduto e non credo. Arrivavano lettere in cui donne trepidanti parlavano di “ nostro figlio”: un bambino concepito quando ero in cella da anni» . Nel film compare però un bambino vero, che va a trovare Vallanzasca in carcere con la madre. «Sì, ho un figlio che oggi ha quarant’anni. Lo vedevo crescere in fotografia, dietro le sbarre. Oggi non lo conosco. Lui non mi vuol parlare. È uno dei grandi rimorsi della mia vita» .
Siamo in una stanza a Mondragone, dove Vallanzasca ha passato qualche giorno di permesso per assistere un familiare, prima di rientrare nel carcere di Bollate. Elide Melli, che ha prodotto il film in associazione con la Fox, ha portato il dvd. C’è anche l’amica d’infanzia divenuta sua moglie, Antonella D’Agostino, impersonata da Paz Vega che in effetti— come provano le foto— somiglia a lei da ragazza. «Ognuno di noi ha il suo santo a cui votarsi. Il mio santo è stato Antonella. Mi ha salvato da me stesso. Mi salva ogni giorno» .
Il film comincia con Vallanzasca in carcere, che aggredisce una guardia e viene pestato a sangue. «È successo tante volte. Fin dal primo arresto. Mi dicevano: spegni la sigaretta, oppure: mettiti qua; e io facevo finta di nulla. Non ho mai riconosciuto l’autorità. E ho preso tante di quelle botte…» . La periferia milanese degli anni del boom, e poi la città violenta dei Settanta, le bische, i night. «Il Giambellino, la Comasina sono ricostruiti bene. Non sapevo che fossero rimaste da qualche parte tutte quelle macchine dell’epoca... Anche la costumista ha fatto un gran lavoro, anche se i vestiti sono fin troppo vecchi: noi eravamo più moderni. Io poi ero sempre in giacca, camicia e cravatta. Ma il film è vero, o comunque verosimile. Ad esempio Filippo Timi, bravissimo, riassume in sé due personaggi: il mio compagno di giovinezza Vito Pesce e Massimo Loi, che mi tradisce e paga con la vita» . Lo uccise lei? «Hanno scritto sciocchezze, tipo che avevamo giocato a pallone con la sua testa mozzata, e io avevo bestemmiato per aver preso un palo. Falsità. È vero però che gli fu staccata la testa. Non da me. Ma mi assumo la responsabilità di quel che accadde nella rivolta del carcere Novara» . Lei aveva criticato il lavoro del regista, Michele Placido. «Ma non avevo ancora visto il film. A scorrere la sceneggiatura, pareva che non mi facessero andare a dormire una sera senza aver combinato qualche disastro e aver avuto due o tre donne. Vedo però che il film non è così. Di scene d’amore poi ce n’è una sola, per giunta interrotta dai carabinieri… C’hanno provato in tanti, a portare al cinema la mia storia: sono grato a Elide Melli che c’è riuscita. Spero che almeno serva a qualcosa, a far capire che è stata una vita gettata via» .
«Kim Rossi Stuart ha lavorato molto per calarsi nella parte. A volte tende a imitare il me stesso di oggi. Allora ero diverso. Ma le scene delle rapine sono autentiche. Entravo con il sorriso sulle labbra, dicevo frasi tipo “ siamo professionisti seri, nessuno si farà male…”. E in effetti, prima dell’arresto, avrò fatto cinquanta o settanta rapine senza che accadesse nulla. Poi, dopo l’evasione, nel giro di pochi mesi mi ritrovai tre morti sulla schiena. Tutto precipitò all’improvviso» . Ma la svolta arriva in piazza Vetra. Nel film si vede Vallanzasca travestito da dirigente di polizia che arriva fin nel caveau, mentre i suoi uomini vengono riconosciti e comincia la sparatoria. «L’esattoria di piazza Vetra è stato il luogo mitico della mia infanzia. La maestra ci portò a vedere i luoghi simbolo di Milano: il Duomo, la Scala, Brera. A me rimase impressa l’esattoria di piazza Vetra, con quella montagna di soldi. Ci pensavo da quando avevo dieci anni. Vi entrai per un sopralluogo. Vidi un agente che leggeva Topolino, e lo rimproverai: “ È così che si fa la guardia? Sistemati la divisa!”. Fuori però si stava mettendo male. E anch’io sparai. Caddero un poliziotto e un mio uomo, Carluccio. Si uccisero a vicenda. A Carluccio spararono due colpi alla nuca, per finirlo. Lui però era già morto. Le mie vittime non sono tutte uguali; per questo non provo per loro lo stesso rimorso» . Vallanzasca, lei dovrebbe provare rispetto per tutte le vittime e tutti i loro parenti. «Se non fosse così, nella scena finale del film, quando incappo nel posto di blocco, avrei afferrato la pistola nascosta nel cassetto. Invece mi fermai. E chiesi al carabiniere quanti anni avesse. “ Venti”, rispose. Così gli dissi: “ Hai fatto 13. Sono Renato Vallanzasca”. E la mia lunga fuga finì lì» .
Aldo Cazzullo