Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 15 Mercoledì calendario

LA «MANO INVISIBILE» DI ADAM SMITH, PRECETTORE DEL MERCATO

Per i liberisti più dogmatici è il massimo teorico del «laissez faire» in economia, il filosofo che ha dimostrato che «greed is good» , l’avidità è una buona cosa, due secoli prima che il regista Oliver Stone mettesse la celebre battuta in bocca a Michael Douglas, il Gordon Gekko di Wall Street, film-affresco sulla finanza del 1987. Per i progressisti è un pensatore che ha sviluppato negli anni i concetti-chiave dell’economia moderna, le cui idee sono state prese in ostaggio da una destra radicale che lo usa come icona a suo piacimento, valorizzando solo i concetti più spiccatamente «mercatisti» . Nel marzo del 1776, mentre in America infuriava la rivoluzione dei coloni contro l’impero britannico, a Londra un filosofo scozzese pubblicò La ricchezza delle nazioni: un trattato nel quale Adam Smith condensava le sue osservazioni di testimone delle trasformazioni economiche dell’Inghilterra e di parte dell’Europa nella quale aveva viaggiato. Smith è un filosofo morale ma, osservando i meccanismi del capitalismo industriale che in quegli anni vive la sua alba, sviluppa analisi e concetti che diventeranno pilastri della moderna scienza economica: i principi che devono ispirare il commercio (libero come nelle colonie americane che, infatti, crescono in fretta, non subordinato agli obiettivi politici dell’Impero come avviene in Gran Bretagna), i danni del dirigismo statale in economia, la divisone del lavoro, il rapporto tra interesse dell’individuo e interesse collettivo. Sono passati più di due secoli, tecnologie digitali e globalizzazione cambiano il mondo alla velocità della luce, ma gli economisti e anche attori e «controllori» del mercato come l’ex capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, invocano in continuazione il nome di quest’uomo curioso e senza storia che non si sposò mai, visse tutta la vita con sua madre, fu docente, conferenziere e precettore, e che era noto ai contemporanei come un eccentrico sognatore ad occhi aperti. La sua teoria più celebre è quella della «mano invisibile» del mercato: l’agire economico di ogni singolo individuo, benché ispirato al tornaconto personale, unito con quello degli altri soggetti produce un risultato complessivamente positivo per la società. I «vizi privati» (come quelli del datore di lavoro che paga salari bassi), diventano «pubbliche virtù» perché i comportamenti individuali, per quanto egoistici possano essere, trovano la loro armonizzazione nel tutto e producono un vantaggio generale di cui beneficia anche chi apparentemente avrebbe solo da perdere. I liberisti hanno concentrato l’attenzione su questa «mano invisibile» , trasformandola nella pietra angolare dell’economia liberista. Un principio dell’efficienza dell’interesse privato dell’individuo che Adam Smith ha scolpito nella pietra di una frase tuttora citata in continuazione: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro moderna, le cui idee sono state prese in ostaggio da una destra radicale che lo usa come icona a suo piacimento, valorizzando solo i concetti più spiccatamente «mercatisti» . Nel marzo del 1776, mentre in America infuriava la rivoluzione dei coloni contro l’impero britannico, a Londra un filosofo scozzese pubblicò La ricchezza delle nazioni: un trattato nel quale Adam Smith condensava le sue osservazioni di testimone delle trasformazioni economiche dell’Inghilterra e di parte dell’Europa nella quale aveva viaggiato. Smith è un filosofo morale ma, osservando i meccanismi del capitalismo industriale che in quegli anni vive la sua alba, sviluppa analisi e concetti che diventeranno pilastri della moderna scienza economica: i principi che devono ispirare il commercio (libero come nelle colonie americane che, infatti, crescono in fretta, non subordinato agli obiettivi politici dell’Impero come avviene in Gran Bretagna), i danni del dirigismo statale in economia, la divisone del lavoro, il rapporto tra interesse dell’individuo e interesse collettivo. Sono passati più di due secoli, tecnologie digitali e globalizzazione cambiano il mondo alla velocità della luce, ma gli economisti e anche attori e «controllori» del mercato come l’ex capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, invocano in continuazione il nome di quest’uomo curioso e senza storia che non si sposò mai, visse tutta la vita con sua madre, fu docente, conferenziere e precettore, e che era noto ai contemporanei come un eccentrico sognatore ad occhi aperti. La sua teoria più celebre è quella della «mano invisibile» del mercato: l’agire economico di ogni singolo individuo, benché ispirato al tornaconto personale, unito con quello degli altri soggetti produce un risultato complessivamente positivo per la società. I «vizi privati» (come quelli del datore di lavoro che paga salari bassi), diventano «pubbliche virtù» perché i comportamenti individuali, per quanto egoistici possano essere, trovano la loro armonizzazione nel tutto e producono un vantaggio generale di cui beneficia anche chi apparentemente avrebbe solo da perdere. I liberisti hanno concentrato l’attenzione su questa «mano invisibile» , trasformandola nella pietra angolare dell’economia liberista. Un principio dell’efficienza dell’interesse privato dell’individuo che Adam Smith ha scolpito nella pietra di una frase tuttora citata in continuazione: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro capacità di fare il loro stesso interesse. Ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro amor proprio» . Un’immersione senza pregiudizi nelle profondità dell’animo umano e una lezione sul funzionamento dei meccanismi economici sempre attuale, soprattutto in un Paese come l’Italia che diffid
a del mercato e delle sue logiche. Una lezione che andrebbe, tuttavia, esaminata non estrapolando i pochi passaggi-chiave divenuti la costituzione materiale del «capitalismo selvaggio» che tanto piace ai sostenitori del liberismo assoluto, ma nel contesto più ampio dell’opera di Smith: che nella Ricchezza ha sostenuto anche la necessità di introdurre regole senza le quali un sistema di «laissez-faire» è destinato a trasformarsi in cospirazione del mondo degli affari contro i consumatori, col libero mercato spazzato via da cartelli e monopoli. Prima della Ricchezza, poi, Smith aveva pubblicato un’altra opera, la Teoria dei sentimenti morali, dedicata ai principi etici che danno forma all’azione degli individui. Insomma, per dirla col suo più recente biografo britannico, Nicholas Phillipson, nella Ricchezza delle nazioni Smith sostiene che un egoista concentrato sul suo profitto fa crescere la ricchezza che circola in una nazione: crea, insomma, un mondo più ricco, ma non per questo necessariamente migliore.
Massimo Gaggi