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 2010  dicembre 15 Mercoledì calendario

L’ALTRO RISORGIMENTO

La voglia di utilizzare posti di potere per mettere le mani nel piatto comune è antica come il mondo: normale per despoti e autocrati, un flagello per le democrazie. Le sagge repubbliche di Genova e Venezia avevano risolto il problema privatizzando la gestione del pubblico denaro la prima e blindando i governanti in una arcigna rete di controlli la seconda. Niente di tutto questo è stato fatto nel Regno e poi nella Repubblica d’Italia, dove la commistione fra interessi pubblici e privati è addirittura diventata un palese incentivo per intraprendere la carriera politica. Tutto ha inizio con uno dei padri della patria.
La cosa risale al 1853 quando il Regno di Sardegna attraversa un periodo di crisi economica che si identifica con la cattiva produzione agricola, e con la carestia e il rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base.
La gente comincia ad agitarsi. Una prima sommossa scoppia l’estate ad Arona, subito dopo a Pegli e a Genova (che era insorta quattro anni prima ed era stata presa a cannonate dal Lamarmora). Il peggio arriva in ottobre: a seguito del rincaro del pane (è la quinta volta che succede dalla fine della guerra del 1849) una folla di torinesi assedia l’abitazione del Primo ministro gridando: «Abbasso Cavour! Abbasso il dazio sul grano!». Interviene con vigore la forza pubblica arrestando una dozzina di poveracci e disperdendo i dimostranti a piattonate. Le notizie provenienti da Torino infiammano gli animi: manifestazioni si tengono a Bra, Voghera, Alba, Barge, Cuorgné, Roccavione, Casale, Busca, Sanfront e Carignano. Il fuoco della protesta è particolarmente vivace in Val d’Aosta, con violenze e blocchi stradali, centinaia di arresti e con l’impiego massiccio dell’esercito.
Ovunque il principale oggetto dell’ira popolare è Cavour, non solo perché viene visto come la personificazione della esosa tassazione per far fronte alle spese militari e al mantenimento di migliaia di “pagnottanti”, esuli politici lombardi e meridionali, ma anche perché corre insistente la voce che ab-
bia degli interessi personali nella sparizione e nel rincaro del grano. Sarebbe infatti direttore e azionista di maggioranza di una impresa di mulini che, in accordo con gli importatori granaglie, avrebbe stoccato nei suoi magazzini una grande quantità di cereali per metterli sul mercato quando i prezzi sarebbero ulteriormente saliti. L’accaparramento di viveri è una triste ricorrenza dei periodi di carestia e non a caso il rialzo fraudolento dei prezzi è un reato perseguito dalla legge.
Legge ad personam
Attraverso la promulgazione di una norma che agevola le importazioni, e dietro il paravento di un liberismo sfrenato, il Cavour (che era stato ministro sia dell’agricoltura che del commercio) avrebbe così, favorito anche sé stesso, in una maliziosa sovrapposizione fra il ruolo del politico e quello dell’imprenditore, che si configura come il primo moderno “conflitto di interessi” della storia italiana. Cavour non è nuovo a questo genere di ope-
razioni: si è rapidamente arricchito (viene accreditato di un patrimonio di 25 milioni, una cifra enorme per l’epoca) e con lui una bandella di amici affaristi che si muove con straordinario tempismo attorno alle iniziative del governo, in un turbinio di patriottico insider trading. Godrebbe anche di altri utili benefit: secondo D’Azeglio avrebbe, ad esempio, fatto deviare il progettato canale che oggi porta il suo nome imponendo un percorso più lungo e costoso per evitare di dividere in due la sua proprietà di Leri.
Della vicenda del grano si occupa sul giornale L’Imparziale l’avvocato Ghisolfi. Cavour, risentito, denuncia l’accusatore, che viene difeso da Angelo Brofferio, famoso esponente dell’opposizione. I giudici assolvono il Ghisolfi. In tribunale, Brofferio ha abilmente provato che il presidente è un negoziante di grano, e che ne ha ammassato una notevole quantità violando la legge del 3 gennaio 1816 e l’articolo 289 del Codice Penale sardo che prevede una condanna a una pena pecuniaria non inferiore
a 500 lire e la confisca delle merci per «Ogni uffiziale dell’ordine amministrativo stipendiato dal governo, il quale nei luoghi soggetti alla sua autorità avrà con atti manifesti o simulati, o per interposte persone, fatto commercio di grani, di farine o di vini che non siano il prodotto de’ suoi beni».
Il documento
Fra i vari documenti prodotti nel dibattimento c’è anche un atto da cui risulta che il conte Camillo Benso è titolare di 90 azioni della Società dei mulini di Collegno e che ne ricopra addirittura la carica di presidente nel periodo in cui è anche Primo ministro.
Il difensore di Cavour, l’avvocato Trombetta, imposta la difesa sulla vetustà delle norme invocate, e sostenendo che il divieto del Codice non riguarderebbe i ministri «perché la paga è piccola, e non devono essere costretti a lasciare il commercio per fare i ministri». Perché, insomma, non si può pretendere che dei poverelli sacrifichino anche le loro sostanze dopo avere impegnato con tanta abnegazione il loro tempo e impegno al servizio della comunità!
Non si lascia commuovere il Brofferio, che su La Voce della Libertà, insiste invece sull’incompatibilità delle due funzioni e chiede di costringere «i ministri costituzionali ad abbandonare il loro traffico» perché ognuno è «padrone di fare il mugnaio o il fornaio: ma se un mugnaio e ministro non possono stare assieme, non accettino il portafoglio» e il posto al governo.
Cavour ha inaugurato l’italica stagione di chi fa contemporaneamente politica e affari e il primo conflitto di interessi. Come tutte le successive vicende analoghe, anche questa finisce a “tarallucci e vino”: è assolto l’accusatore, ma il denunciato può continuare a farsi i fattacci propri.
É un nobile e patriottico precedente. L’evoluzione è che oggi non c’è più la scusa di guadagnare poco facendo politica.