Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 15 Mercoledì calendario

LA RABBIA E L’ORRORE “ERA VIETATO CHIAMARE I POMPIERI”

Potevano andarsene. Scappare, appena viste le prime fiamme. All’inizio erano alte dieci, quindici centimetri al massimo, ha raccontato l’unico superstite, Antonio Boccuzzi, oggi deputato del Pd. La notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, a Torino, Rocco Marzo (54 anni), Angelo Laurino (43), Antonio Schiavo-ne (36), Giuseppe De Masi, Rosario Rodinò e Bruno Santino (tutti e tre di 26 anni) e Roberto Scola, il più giovane, appena ventitreenne, avrebbero dovuto fare proprio ciò che certa retorica attribuisce al tipico operaio italiano non competitivo: fregarsene. Lasciar bruciare il laminatoio 5 della multinazionale tedesca Thyssen Krupp. Invece sono morti per rispettare un istinto antico ("la nostra fabbrica") e per obbedire a un ordine assurdo che faceva di loro, giovani operai senza formazione, il baluardo antincendio in un impianto privo dei più elementari accorgimenti di sicurezza. Dove il brillante manager tedesco Harald Espenhahn aveva deciso di risparmiare gli 800 mila euro dell’impianto antincendio automatico. La sua decisione era stata di rinviare l’investimento a gennaio o a febbraio, dopo che il laminatoio 5 fosse stato trasferito a Terni. Un’idea brillante: si chiama razionalizzazione.
"Non potevamo credere ai nostri occhi", è sbottato il pubblico ministero Raffaele Guariniello per spiegare ai giurati della Corte d’assise di Torino la sua emozione di fronte ai risultati dell’inchiesta. Ripercorrendo gli oltre due mesi di requisitoria da lui condotta con le colleghe della pubblica accusa Laura Longo e Francesca Traverso, e le cose viste e sentite durante due anni di udienze, non si riesce a trovare una sintesi migliore: non ci si può credere.
ALLA BASE DI TUTTO c’è una multinazionale che ha deciso di chiudere lo stabilimento di Torino, e che nel giro di un paio di mesi smantellerà e trasferirà a Terni il laminatoio 5. Il personale cala da un giorno all’altro, a colpi di prepensionamenti, così se ne vanno gli esperti e restano i ragazzi. Manutenzioni e pulizia vengono sempre più trascurate. Ed è anche per questo che il pomeriggio del 5 dicembre, un banale mercoledì, il laminatoio si ferma in continuazione. Ci sono problemi. Alle 22 scatta il cambio turno. Boccuzzi e Schiavone, che hanno finito le loro otto ore di lavoro, devono fermarsi per farne altre otto. Davanti alla Corte d’assise ha così deposto Boccuzzi: "Noi avevamo delle disposizioni all’interno dell’azienda... prevedevano che ci dovessimo fermare in straordinario fino all’intera a durata del turno successivo, ogni qualvolta non si presentava il turno montante”. Quel contratto super rigido dei metalmeccanici che secondo Sergio Marchionne sta mandando l’Italia in rovina consente che l’operaio, dopo otto ore di lavoro, ne faccia altre otto se il collega che deve sostituirlo non arriva.
NEL TURNO DI NOTTE ci sono ancora problemi. Arriva Rocco Marzo, capoturno, un operaio che deve sovrintendere alla produzione di tutto lo stabilimento ma anche all’emergenza. I capiturno della manutenzione sono stati tutti "esodati". Si prende Marzo e gli si dice "occupatene tu". È l’unico capoturno presente nell’acciaieria in quel momento. Ed è la sua prima notte nel nuovo incarico. Ecco la pm Traverso che si rivolge incredula alla giuria popolare: "Nessuno verificò se Marzo fosse in possesso dei requisiti necessari per affrontare le sue nuove mansioni. Infatti, pur avendo effettivamente un’esperienza pluriennale sulle linee di finimento, non aveva seguito alcun corso antincendio". Nessuno dei sette morti della Thyssen Krupp aveva fatto un vero corso antincendio, però tutti e sette avevano l’obbligo di spegnere ogni eventuale fuoco. E gli avvocati e i periti della Thyssen hanno cercato di dimostrare - secondo una tecnica ormai consueta in casi del genere - che forse sono morti per colpa loro, per "distrazione" o per grave incapacità.
E dopo Marzo ecco arrivare Bruno Santino, che non c’entra niente con il laminatoio, ma gira per lo stabilimento alla ricerca proprio di Marzo, unico capoturno presente, per informarlo di essere arrivato in ritardo. Ha scelto proprio il momento peggiore per entrare dentro il capannone . Antonio Schiavone è sul pulpito, quella specie di torre di controllo da cui si guida l’impianto, è seduto al computer che comanda le macchine. Giuseppe De Masi è il collaudatore, è chiuso nell’apposita cabina dove si segnalano al sistema informatico le anomalie di funzionamento. Roberto Scola si muove lungo i duecento metri di lunghezza del laminatoio, sta pulendo dei residui di carta che provengono dai rotoli di acciaio, vanno tolti perché facilmente infiammabili.
Ed è Roby, come lo chiamano i colleghi, a segnalare le prime fiamme. Sembra routine: a quanto pare erano abituati a lavorare in mezzo alle fiamme. Lo ha spiegato alla giuria il pm Laura Longo: "I dati dal 2002 al 2007 sulla linea 5 mostrano che sono stati ricaricati 4.912 estintori portatili da 5 chili, 797 estintori carrellati da 30, 1.392 bombole, 513 a polvere, e 320 chili di anidride carbonica ricaricata nel serbatoio, segno che le fiamme erano all’ordine del giorno’’. "Alla Thyssen spegnevano centinaia di incendi. Se avessero avuto un impianto automatico avrebbero risolto un sacco di problemi", ha testimoniato al processo Dario Domeneghini, che curava la manutenzione degli estintori. E quindi ecco l’ennesimo incendio, Scola che chiama i compagni, Boccuzzi,RodinòeLaurino,chesonosul pulpito a seguire la produzione attraverso i monitor, corrono subito, cercano gli estintori, provano senza risultato a spegnere le fiamme. L’inchiesta scoprirà che buona parte degli estintori presenti in azienda sono scaduti o difettosi, e che sono comunque inadatti a quel tipo di fiamma: quando c’è carta che brucia non va bene l’anidride carbonica, dicono gli esperti, perché non estingue la brace. Però, insinua l’accusa, la Co2 non lascia residui, non sporca, non rischia di sciupare la lamiera in lavorazione.
E poi c’è l’olio, sparso per terra, perché queste macchine non sono tenute bene, e perdono migliaia di litri di olio all’anno, e il rimedio è buttargli sopra un po’ di segatura. Ha raccontato Boccuzzi al processo che uno dei sei imputati, il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri, annunciava in anticipo agli operai l’arrivo degli ispettori dell’Asl: "Solo in quelle occasioni si facevano le vere pulizie’’. Nel frattempo sono arrivati gli altri quattro: Marzo, De Masi, Schiavone e Santino. Boccuzzi si gira, va a prendere una manichetta per collegarla all’idrante, ed è così che per puro caso si salva: mentre armeggia dietro a un muletto, esplode la grande fiammata. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il fuoco ha provocato la rottura di un tubo flessibile del sistema di azionamento pneumatico del laminatoio. Lì dentro scorre olio ad alta temperatura e pressione. Lo spruzzo è violento, le fiamme avvolgono i sette operai (tutti meno Boccuzzi), e si levano altissime. In cinque minuti, calcola la pubblica accusa, vengono sparati dal flessibile rotto 450 litri di olio.
BUCCUZZI CORRE sul pulpito, cerca di chiamare i soccorsi, ma il telefono non funziona. Esce urlando dal capannone. Il primo a intervenire è Piero Barbetta, e si trova davanti l’inferno. Con il suo cellulare chiama il 118. La telefonata viene registrata, al processo i familiari delle vittime hanno potuto sentire i loro cari che implorano aiuto. Barbetta al processo ha rievocato la scena: “Ho visto un muro di fuoco. Ho detto ai compagni di prendere estintori e manicotti. Poi ne ho visti due a terra (erano Laurino e Scola). Erano completamente nudi, con le scarpe che bruciavano. Con me non avevo niente, ho preso il mio maglione e ho spento quel che restava. Gli altri erano in piedi, tutti nudi. De Masi l’ho riconosciuto solo dalla voce, mi ha chiesto se aveva la faccia bruciata. Rodinò urlava ‘non voglio morire’. Rocco Marzo lo riconobbi mentre lo aiutavo a salire sull’ambulanza, diceva che non riusciva a respirare”. Nel giro di pochi giorni saranno uccisi dalle ustioni in sette. Barbetta ha spiegato alla corte che gli incendi erano quotidiani: "Non avevamo la professionalità necessaria ma intervenivamo sempre. Avevo fatto solo un corso di addestramento dove mi avevamo spiegato come si impugnava la lancia dell’estintore, la manichetta e altro. Alla fine era previsto un esame dai vigili del fuoco. Ma l’azienda non ce lo fece fare. Solo se non riuscivamo a spegnere le fiamme chiamavamo la squadra antincendio. Assolutamente ci era vietato chiamare i vigili del fuoco".
Quando arrivano i pompieri, scoprono che nelle condotte antincendio non c’è abbastanza pressione per fare la schiuma. Ecco la spiegazione del pm Traverso: “Questo anello idrico antincendio non è stata un’iniziativa dell’azienda, ma era stata effettuata per il rilascio del certificato di prevenzione incendi. Il progetto si era messo in moto dal 2003 in seguito al gravissimo incendio del 2002 che aveva coinvolto il laminatoio. Questi lavori effettivamente erano inadeguati, ed erano stati eseguiti anche in tempi relativamente recenti. In una comunicazione inviata ai vigili del fuoco, il 10 gennaio 2006 si chiede una proroga per realizzare gli interventi richiesti: “Non riusciamo a fare i lavori, chiediamo tempo fino al dicembre 2007”.
Otto mesi prima dell’incidente, nell’aprile 2007, il consulente della compagnia assicuratrice Axa Andrea Brizzi, aveva consigliato alla Thyssen Krupp di aumentare gli addetti alle squadre di pronto intervento, per risparmiare sul costo delle polizze. A due anni dall’incidente, Daniele Moroni, responsabile dell’area tecnica della Thyssen Krupp, uno degli imputati per omicidio colposo, durante il suo interrogatorio in corte d’assise ha detto che l’azienda ha "fatto tesoro dell’esperienza di Torino", e con una serie di interventi antincendio nello stabilimento di Terni ha ottenuto un abbassamento dei premi da parte dell’Axa. Infatti quaranta giorni dopo l’operaio Diego Bianchina, 31 anni, è morto a Terni non per un incendio ma per esalazioni letali provocati da una perdita di acido cloridrico. Il 19 giugno scorso, nello stesso stabilimento, il ventinovenne Leonardo Ippoliti è morto non per un incendio ma per essere rimasto schiacciato da un macchinario. In seguito a questo incidente la magistratura ha posto sotto sequestro l’impianto incriminato, e la Thyssen Krupp ha mandato in cassa integrazione i 24 addetti.