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 2010  novembre 30 Martedì calendario

TRA I CONTADINI SOTTO IL FUOCO DEI TALEBANI - I

talebani? Azizullah assicura di non averne mai visti. Il sergente Andrews lo incalza. Il piccolo contadino, 46 anni, sebbene ne dimostri più di 60, si schiaccia contro il muretto, quasi volesse scomparire. Tra il suo volto e quello dell’ufficiale americano ci sono ormai pochi centimetri, ma la paura di Azizullah crea una distanza incolmabile. Non vuole che gli altri lo vedano con gli stranieri. In testa ha ben chiare le minacce dei talebani: chi collaborerà con il nemico sarà impiccato o sgozzato. Anche accettare un dono potrebbe comportare una grave punizione. Meglio negare. Ma se il linguaggio del corpo non mente, il continuo accarezzarsi la barba, il roteare gli occhi, il nervoso gesticolare suggeriscono il contrario; i talebani sono vicini, forse a pochi metri, nascosti in una delle case di fango di Kafardana, nella turbolenta area di Siah Choy.

In questo remoto villaggio agricolo del distretto di Zhari, nella provincia meridionale di Kandahar, i soldati americani non c’erano mai stati. I contadini erano stati avvertiti: «State lontani dai nuovi demoni». I vecchi, i sovietici, non sono mai riusciti a espugnare il distretto. Qualche anziano crede che siano ancora nei dintorni. «Stiamo bene da soli. Non abbiamo bisogno di nessuno. Non vogliano stranieri», irrompe Ashmad, 18 anni. Gli altri stanno alla larga. Siah Choy è il territorio più ostile di Zhari, fino al mese scorso uno dei tre distretti caldi di Kandahar, zona dominata dall’etnia Pashtun, conquistati dalle truppe americane nell’offensiva partita lo scorso settembre e terminata a fine ottobre.

A Zhari il mullah Omar era di casa. Protetto dal plotone, che punta le armi a ogni angolo, un altro ufficiale americano, con gentilezza, attraverso l’interprete prova a vincere la diffidenza degli abitanti di Kafardana. «Di cosa avete bisogno? Desiderate un lavoro, generatori, sementi?». È il primo tentativo di instaurare un contatto in un villaggio che esisteva soltanto sulle cartine del satellite. L’obiettivo è raccogliere le informazioni basilari: abitanti, nome del villaggio, nome del capovillaggio (l’elder), quale tribù comanda (gli Alkazai, un clan molto vicino agli insorti) e quante sono le moschee. Le risposte sono asciutte. «Sapete dove trovarci, domenica organizzeremo alla nostra base una Shura (un consiglio). Siete i benvenuti», conclude l’ufficiale.

È già passata un’ora. Troppo. Il plotone si ritira. Il silenzio che ci circonda, e i campi deserti nell’ora in cui i contadini lavorano, non sono un buon segnale. Poche centinaia di metri dopo il villaggio un boato solleva schizzi di terra: è un razzo rpg. Partono le raffiche. Il plotone risponde al fuoco. È un contatto ravvicinato. I talebani sono a 50 metri, nascosti tra le piante di marijuana, che qui crescono rigogliose. Pochi, interminabili minuti di fuoco. Poi arrivano gli elicotteri. I talebani si dileguano. Per evitare gli ordigni e le mine si rientra alla base tagliando corsi di acqua, campi melmosi, puntando i fucili nei luoghi più esposti. Si scavalcano uno dietro l’altro i muretti di fango su cui sono abbarbicate le viti.

Dopo 40 minuti si arriva alla base, l’avamposto di combattimento (Cop) di Sablaghay. È un vecchio fortino di mattoni di fango eretto su una piccola altura. Era la postazione dei talebani solo tre settimane fa, prima che la espugnasse il battaglione del 1°/75° Cavalry, inquadrato nella 101ª divisione, le "aquile urlanti".

Il fortino di Sablaghay è l’emblema della nuova strategia portata avanti dal generale Petraeus, il comandante del contingente Nato in Afghanistan: conquistare il terreno, restare, ottenere la fiducia della popolazione. Infine, ricostruire. In altre parole counterinsurgency. Ma se l’offensiva di ottobre è andata meglio del previsto, Siah Choy resta un’area molto difficile. Il fazzoletto di terra che si affaccia sul fiume Arghandab è l’ultimo pezzo di inferno verde. Dalle solide mura del fortino si domina la spianata. Le piante di marijuana lambiscono il filo spinato, più in là si distendono coltivazioni di papavero e melograni. Qui i venti soldati del plotone White, in forza alle truppe Apache, si sono divisi il forte con i militari dell’esercito afghano (Ana). Ciascuno, d’altronde, ha le sue usanze. Ma ogni pattugliamento viene condotto insieme. Una volta addestrato efficacemente, l’esercito afghano presidierà il territorio da solo.

Il 2014, la data in cui al governo di Kabul dovrebbe essere ceduta la sicurezza del paese, appare però troppo vicino. «Staremo qua a lungo - spiega il capitano del plotone, Ryan Kort, 30 anni, di origini tedesche. - Ci vorrà del tempo: gli insorti non hanno paura di combattere, anzi. Con i loro agguati e gli ordigni esplosivi provano a indebolirci. Noi vogliamo mantenere gli scontri fuori dai villaggi». Se non fosse per la divisa e il fucile, Kort sembrerebbe un intellettuale. La notte, quando i soldati dormono nelle tende tra la sabbia (che si infila dappertutto), lo si vede studiare il territorio sulla mappa satellitare e trascrivere le note dal suo taccuino. Sa bene che i "contatti" con il nemico sono all’ordine del giorno. In sei giorni il fortino è stato attaccato due volte. Ma i piccoli progressi compiuti nel villaggio più vicino, Sharafuddin, a poche centinaia di metri, lo incoraggiano. Qui comanda la tribù Papalzai, da cui proviene il presidente afghano Hamid Karzai. I circa cento abitanti sono più amichevoli. Hanno anche il coraggio di chiedere. Per ora non vogliono sementi, generatori, o lavoro retribuito. Chiedono solo sicurezza e un check point che impedisca ai talebani di compiere scorrerie nel villaggio e rompa il coprifuoco imposto dai ribelli. Poi, ripetono, accetteranno di collaborare. «Check point? Non abbiamo abbastanza uomini per controllare capillarmente il territorio», ribatte Kort. Eppure, mai come ora le forze della Nato saranno così numerose: 150mila uomini, di cui due terzi americani. I talebani lo sanno bene, e attendono. «Voi avete l’orologio, noi il tempo», ripetono. «La più grande frustrazione è l’assenza di comunicazione e la differenza culturale. Ma stiamo facendo un buon lavoro», precisa Kort.

Le sue parole sono interrotte dall’ennesimo boato. Potrebbe essere un ordigno fatto brillare, nella peggiore ipotesi un’esplosione che ha investito un blindato, più probabilmente una delle tante case afghane abbandonate dai talebani e riempite di trappole esplosive che i soldati fanno saltare in aria. Ne hanno distrutte oltre 500, pagando un indennizzo ai proprietari. A Sablaghay i boati scandiscono il tempo.

Questo piccolo angolo della provincia di Kandahar racconta meglio di altri luoghi quanto sia faticosa e lenta la guerra contro gli insorti. Controllare il territorio significa lottare campo per campo, villaggio per villaggio. «Se i talebani perdessero quest’area sarebbe la loro disfatta», conclude Kort. Non è facile. Gli insorti si muovono agevolmente, non hanno divise. Sono invisibili, quando non sono armati. Solo la popolazione locale riesce a distinguerli. Ma ha paura.

Visitare i villaggi "senza nome" è come immergersi nel Medioevo. Dedali di vie polverose, muri di fango e grandi cortili, dove viene ammassata la marijuana a essiccare. Come ad al-Koudzi, dove non si vede mai una donna, nemmeno coperta dal burqa. In tutta l’area di Zhari c’è solo una scuola, nel capoluogo Sangiray. A Siah Choy l’istruzione non esiste. Nessuna Ong osa arrivare fino a qui. L’analfabetismo sfiora il 90 per cento. Trovare qualcuno che sappia cosa è accaduto l’11 settembre 2001 diventa una sfida. Nei cinque villaggi che visitiamo solo una persona su dieci risponde, in modo approssimativo. Basti pensare che a Sharafuddin nessuno ha il televisore e tre fortunati possiedono il cellulare, spiega il loquace Hashmad, 50 anni.

Tutto lascia presagire che la campagna afghana - venerdì ha superato per durata l’invasione sovietica - si trascinerà ancora a lungo. «In Iraq la conformazione geografica era più accessibile. Qui non ci sono infrastrutture, strade. Gli insorti sono molto organizzati. Attaccano e fuggono. Se solo avessimo l’appoggio della popolazione, le cose cambierebbero», spiega l’esperto sergente Joel Aldridge, 29 anni. È solo una speranza. Lo conferma la Shura, tenutasi a Sablaghay. Si aspettavano cento persone, ne sono arrivate cinque. La spiegazione è, ancora una volta, la paura.

Nel resto del distretto il clima è un altro. I combattimenti sono stati, sì, duri, ma ora la gente dei villaggi vicino alla Cop Jfn è più disponibile. A Payendi, una volta alla settimana, cento persone attendono in coda per ritirare la paga dell’esercito per i lavori svolti. Anche qui la povertà è diffusa e l’analfabetismo è uno dei problemi maggiori. Ma la gente ha il coraggio di chiedere. Vogliono soprattutto scuole e generatori. Si avvicina un anziano: «Dite al re d’America che stiamo soffrendo molto», ci supplica. Informato che siamo italiani, un paese molto più piccolo, il tenace contadino non desiste: «Allora dite allo sceicco d’Italia di aiutarci».