Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 30 Martedì calendario

GRANDEZZA DEI CORROTTI CHE HANNO FATTO LA STORIA - C’è

una curiosa circostanza nella storia dell’umanità: alcune (molte) grandi personalità ancor oggi venerate o comunque tenute in alta considerazione, ai tempi in cui sono vissute sono state accusate di essersi lasciate tentare dal denaro. Accuse che per lo più sono sempre state corroborate da prove robuste. Nel V secolo a.C. l’«incorruttibile» Pericle fu sospettato di aver lucrato sui lavori pubblici per la costruzione del Partenone e lo scultore che su suo incarico sovraintese tra il 447 e il 432 a.C. ai lavori, Fidia, fu trascinato in giudizio con l’imputazione di aver sottratto parte dell’oro destinato alla statua di Atena. Riferisce Plutarco che un secolo dopo, nel 324 a.C., Demostene, il difensore dell’indipendenza ateniese da Filippo il macedone e da Alessandro Magno, fu pesantemente implicato nell’«affare Arpalo» (la sparizione di metà del patrimonio sottratta ad Alessandro dal suo tesoriere) e costretto all’esilio.
Racconta Svetonio che pure su Giulio Cesare gravò il sospetto di essersi procurato illecitamente grandi quantità di denaro. Un sospetto che è aleggiato anche sui suoi uomini e sui suoi rivali: «gli abiti dei suoi governatori erano fatti solo di tasche», ha scritto Bertolt Brecht ne Gli affari del signor Giulio Cesare; e Montesquieu — nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza — estese l’accusa di malversazione a Crasso e Pompeo, rei di aver introdotto «l’uso di corrompere il popolo con i soldi». Un grande moralista dell’antichità fu Marco Porcio Catone detto «il censore». Eppure — scriveva Seneca nelle Lettere a Lucilio — la «corruzione a Roma non è mai stata sfacciata come ai tempi di Catone». Qualche insinuazione avrebbe poi colpito lo stesso Seneca. Pesanti sospetti si addensarono su Sallustio il quale, dopo essere stato governatore della Numidia, si ritrovò tra le mani un patrimonio che gli consentì di costruire a Roma una splendida villa nei pressi del Quirinale: «Si farebbe del moralismo», ironizza Luca Canali in Identikit dei padri antichi (Manifestolibri), «affermando che il moralismo di Sallustio deriva dalla sua presunta immoralità».
A Roma, nell’età dell’impero, l’accaparramento illecito dilagò e in alcuni casi fu sfrenato. Successivamente qualcosa cambiò. Interessante, a tal proposito, la notazione di John T. Noonan — in Ungere le ruote. Storia della corruzione politica dal 3000 a.C. alla Rivoluzione francese (Sugarco) — secondo il quale il fenomeno si attenua con la diffusione della morale cristiana, nell’età dei barbari e nel primo Medioevo.
In tempi più recenti, l’uso del potere per accumulare ricchezze caratterizzò a Parigi l’attività di Richelieu che Montesquieu definì «il peggiore cittadino di Francia» (Luigi XIV, appena incoronato, istituì una corte di giustizia incaricata di esaminare la contabilità del cardinale e tale corte individuò numerosi episodi di abuso) nonché quella di Mazarino. Prima di loro c’era stato Jacques de Semblançay, tesoriere di Luigi XII e di Francesco I, impiccato per aver rubato del denaro pubblico, il quale, a dispetto delle sue malefatte, aveva ispirato a Clément Marot un poema pieno di ammirazione. Grande predatore fu anche il sovrintendente di Luigi XIV Nicolas Fouquet — protettore di Corneille, La Fontaine, Molière — che nel 1661 diede, nel suo castello di Vaux-le-Vicomte, una festa sfarzosa al punto da provocare addirittura la gelosia del re, che lo fece condannare alla prigione perpetua nella torre di Pignerol (ma il popolo di Parigi esultò alla notizia che gli era stata risparmiata la pena capitale).
In Inghilterra sir Robert Walpole, al potere dal 1721 al 1742, riuscì sì a far grande il suo Paese, ma anche a procurarsi illecitamente ingenti somme di denaro e, per questa sua debolezza, divenne il bersaglio di Jonathan Swift, oltre che di molti altri scrittori dell’epoca: Henry Fielding, Alexander Pope, John Andrews, John Gay (nel 2000 Edward Pearce ha scritto una biografia in cui lo ha del tutto rivalutato: «Forse era corrotto ma almeno si comportava da adulto»). Ai tempi della Rivoluzione francese e nei sedici anni successivi si lasciarono corrompere Danton, Sieyès, Brissot, Barère, Barras, Napoleone (assieme a quasi tutti i suoi familiari), ma soprattutto Talleyrand. Quest’ultimo operò in modo talmente sfacciato che Napoleone lo definì come «l’uomo che più ha rubato al mondo»; Chateaubriand scrisse che praticamente non c’era stato un solo atto politico che egli avesse compiuto gratuitamente; Mirabeau sostenne che per i soldi Talleyrand si sarebbe venduto anche l’anima (aggiungendo: «e avrebbe ragione perché cambierebbe la merda con l’oro», confermando la definizione che di lui aveva dato il Bonaparte: «merda in una calza di seta»). Offese alle quali Talleyrand rispose sempre con grande flemma. Allorché fu vittima di un violentissimo attacco lanciatogli dal duca di Fitz-James, il principe di Benevento reagì felicitandosi con l’oratore per l’eccellente discorso, «malgrado delle piccole cose un po’ aspre».
Per chi abbia voglia di ripercorrere la storia di questo genere di depravazione connessa al potere è adesso a disposizione un bel libro di Carlo Alberto Brioschi, Il malaffare (Longanesi), che si sofferma su innumerevoli casi di «mani sporche» dall’antichità ai giorni nostri. Ciò che impressiona maggiormente nel leggere il libro di Brioschi è la quantità di grandi personaggi ancora adesso rispettati e — come si diceva all’inizio — tenuti nel conto di benemeriti nella storia dell’umanità che non disdegnarono di barattare il loro rigore morale con danaro e potere. E qui sorge spontanea la domanda: come è possibile che, pur condannando in ogni momento la corruzione, non teniamo in alcun conto la circostanza che molti grandi della storia si siano lasciati corrompere? Per una risposta (che contiene un’analisi approfondita del fenomeno) ci giunge in aiuto Le virtù discrete della corruzione di Gaspard Koenig (pp. 228, € 16), che esce domani per Bompiani. Il libro, scrive Koenig, «non è un appello alla corruzione, ma la difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato, al quale forse siamo debitori di ciò che abbiamo di meglio». Difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato? Al quale dovremmo considerarci addirittura debitori? In che senso?
Modello di questo trattato è La favola delle api di Bernard de Mandeville (la migliore versione italiana è forse quella curata da Tito Magri per i tipi Laterza), che trecento anni fa suscitò uno scandalo destinato a durare decenni. Secondo Sergio Ricossa — in I grandi classici dell’economia (Bompiani) — quello di Mandeville è un piccolo capolavoro, tant’è che quasi tutti gli studiosi venuti dopo di lui, a cominciare da Adam Smith, hanno tratto ispirazione dal suo poemetto pur senza tributargli l’onore che avrebbe meritato (con l’eccezione di Marx che nel Capitale gli rende esplicito omaggio). Solo nel Novecento due grandi economisti, John Maynard Keynes e, sul versante opposto, Friedrich von Hayek, l’hanno rivalutato appieno. Tesi centrale in Mandeville — come si evince dal sottotitolo del libro Vizi privati, pubblici benefici —è che una società onesta è una società stagnante, mentre la corruzione genera una circolazione incessante di beni e di status. «È impossibile», scrive Mandeville, «avere tutte le dolcezze più raffinate della vita, presenti in una nazione industriosa, ricca e potente e conoscere allo stesso tempo tutta la virtù e tutta l’innocenza che ci si augura»; «quelli che vogliono rivedere un’età dell’oro, devono essere anche disposti a nutrirsi di ghiande»; «la virtù ci comanda di sottomettere i nostri appetiti, ma la buona educazione ci chiede soltanto di celarli». Scrive ancora Mandeville: «Sarei pronto a gloriare la fortezza e il disprezzo delle ricchezze come Seneca, e scrivere in difesa della povertà il doppio di quello che lui ha scritto, per un decimo delle sue proprietà».
Secondo Mandeville il grande nemico della corruzione è nient’altro che un «indolente»: «Volete metterlo alla prova? Colmatelo di onori e di ricchezze; non tarderà a conformarsi al mondo elegante, riderà di buon cuore di quella frugalità e di quel disprezzo delle ricchezze e della grandezza di cui faceva professione nel tempo in cui era povero; e ammetterà volentieri la futilità di quelle pretese ragioni». Quanto ai politici, «i ministri competenti, virtuosi, disinteressati sono i migliori; ma nell’attesa ci vogliono dei ministri». C’è da aggiungere che secondo Montesquieu (in Lo spirito delle leggi) «gli uomini furfanti al dettaglio, sono all’ingrosso gente molto onesta». E Machiavelli nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio spiega bene come i membri del corpo sociale, una volta corrotti, sia impossibile riformarli.
Nella storia del cristianesimo, Koenig giudica centrale la figura di Giuda Iscariota: senza Giuda niente crocifissione, senza crocifissione niente redenzione, senza redenzione
niente cattolicesimo. Se la corruzione di Giuda è così determinante, è perché riflette la corruzione generale del mondo a partire dal peccato originale, corruzione che apre la possibilità di una redenzione tramite la fede e che non verrà cancellata, se non nel momento della resurrezione e del giudizio finale. Utile guida a meglio comprendere questi concetti è Le tre versioni di Giuda di Jorge Luis Borges. Qui Giuda sarebbe il vero figlio di Dio, di un Dio totalmente fatto uomo, con tutte le debolezze dell’uomo. Gesù l’incorruttibile sarebbe invece un impostore. L’uomo, quello vero, il solo degno, alla fine, di essere l’oggetto di una religione, è Giuda. Se ogni essere umano ha un prezzo, Giuda ha trovato il suo. Non gli si può rimproverare niente «se non forse la somma, stranamente poco elevata, per un uomo che era il tesoriere degli apostoli… con mille denari, scommettiamo che Giuda non si sarebbe suicidato e avrebbe trascorso dei giorni felici in Galilea».
Il corrotto allaccia e rompe le amicizie al ritmo degli affari. Ma deve anche fare i conti con i suoi nemici tradizionali: «I forsennati della lotta anticorruzione, i crociati della trasparenza, gli isterici della avversione al denaro sporco». Gente che traveste il proprio risentimento con l’esigenza di giustizia o di verità. Quel genere di «filosofo» che, secondo Mandeville, «si crede virtuoso solo perché le sue passioni si sono addormentate… e sentendosi inutile ai suoi concittadini, si vendica esortandoli a praticare una noiosa virtù che non è in grado di incitare a cose grandi e a imprese pericolose». Una vita temperata, vale a dire non corrotta, non procura alcun rispetto perché non produce alcun potere. La virtù è simile alle porcellane cinesi, molto belle a vedersi dal di fuori ma «guardate l’interno di ognuna, non vi troverete che polvere e ragnatele».
Il ritratto del fenomeno corruzione va fatto — secondo l’autore — mettendo in risalto i chiari e gli scuri. Nietzsche, in Al di là del
bene e del male, afferma che i refrattari alla corruzione sono persone «inguaribilmente mediocri», che hanno come «unica prospettiva di riprodursi e perpetuarsi». Lo stesso filosofo, nella Gaia Scienza, descrive le epoche della corruzione come quelle in cui «la tragedia si aggira per le case e le strade, nascono il grande amore e il grande odio e la fiamma della conoscenza si alza splendente verso il cielo». Poi così prosegue: «Gli uomini della corruzione sono spiritosi e bugiardi, sanno che ci sono altri modi di assassinare, oltre al pugnale e all’agguato»; «le epoche di corruzione sono quelle in cui le mele cadono dagli alberi: voglio dire gli individui, quelli che portano il seme dell’avvenire».
Un potere non corrotto sarebbe, secondo Koenig, un potere vuoto, formale, senza efficacia, privo di qualsiasi presa reale sul mondo. Per imporre la propria volontà, bisogna aprirsi agli altri, comporre le diverse influenze, costruire delle reti offrendo favori piccoli o grandi, venire a patti con le proprie convinzioni, cambiare una parte di se stessi. Ecco perché si sentirà gridare fino alla fine dei tempi contro i governanti: «Tutti marci!» o «tutti lo stesso!»… mentre la disonestà spesso è garanzia di buona gestione. «Un potere onesto, trasparente, fermo nei principi, sarebbe debole per natura; per contro una corruzione senza potere è un non senso: perché corrompere qualcuno che non può far niente per noi? Perché farsi corrompere da chi non ci può dare niente?».
È quel che disse alla fine del XIX secolo Lord Acton: «Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente», scrisse in una lettera del 5 aprile 1887 a Mandell Creighton, «i grandi uomini sono quasi sempre dei cattivi uomini». Il nobile barone inglese, osserva Koenig, «non intendeva assolutamente fare l’elogio della corruzione; paradossalmente, il suo liberalismo, che pone l’interesse individuale sopra ogni altro movente, lo porta a una tesi così drammatica e così profondamente realista». Quanto poi a l mondo limpido dell’Utopia, George Orwell «ha ben descritto dove porta il fanatismo della trasparenza: l’individuo diventa come una medusa, traslucido e vuoto».
George Orwell in 1984 spiega come il totalitarismo sia il più feroce avversario della corruzione (e viceversa). L’eroe del suo libro, per difendersi dal Grande Fratello ripone in essa aspettative di libertà: «Tutto ciò che la--
sciava intravedere una corruzione», scrive, «lo riempiva sempre di una folle speranza». Di più. C’è un capitolo del famoso libro di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli), che raccoglie le corrispondenze della scrittrice sul processo al criminale nazista scritte per il «New Yorker», in cui si parla diffusamente di Kurt Becher. E chi era Becher? Un nazista corrotto, laddove Eichmann era stato incorruttibile. Eichmann si era presentato come un uomo ligio ai doveri di cittadino che rispetta la legge, fiero di esibire un «atteggiamento senza compromessi», dettato «non dal fanatismo, ma dalla sua stessa coscienza». Tutto il contrario di Becher, che si muoveva nei meandri della corruzione. E così mentre Eichmann arrivava a deportare in qualche mese più di 400 mila ebrei ungheresi, Becher, su incarico di Himmler, aveva come «missione speciale» l’assunzione del controllo delle principali imprese ebraiche. Con ogni mezzo. Per mettere le mani sul cartello dell’acciaio di Manfred Weiss, Becher — dietro compenso — consentì a 45 membri della famiglia Weiss di emigrare verso il Portogallo. Eichmann seppe di queste attività e le definì «porcherie». Ma Becher se ne infischiò e fissò, anzi, una tariffa di duemila dollari, pagando i quali gli ebrei potevano mettersi in salvo. Fu così che 1.684 israeliti sfuggirono alla rete di Eichmann. Poi Becher mise a punto un programma, «vita contro merci», che prevedeva lo scambio tra la vita di un milione di ebrei e 10 mila camion. Il piano fallì, ma intanto le fortune di Becher crebbero. In tempo di guerra Becher ottenne una promozione che Eichmann non riuscì ad avere e, caduto il Terzo Reich, non solo si salvò ma, grazie al tesoro che si era procacciato nei modi di cui abbiamo detto, visse il resto della sua vita come uno degli uomini più ricchi della Germania occidentale.
La Arendt ci induce a riflettere sul fatto che la virtù era certamente di casa nella coscienza di Eichmann, un cittadino «che rispetta la legge ma non la vita». La corruzione invece era al centro dell’universo mentale di Becher, «un uomo senza morale che salva delle vite». Koenig ne trae la conclusione che «il gioco degli interessi comuni produce dei risultati più ponderati che i precetti della coscienza individuale; attraverso le tentazioni, la vita oltrepassa la freddezza mortale dei principi… Trafficando in "vite contro merci", Becher rispondeva infine a una inclinazione vitale, non perché si preoccupasse della vita degli altri, ma perché pensava alla sua». Dopodiché l’autore aggiunge: «non vogliamo concludere che la corruzione si trova infallibilmente dalla parte del bene… ma, invitando a scegliere il compromesso, contro il fanatismo morale, essa quanto meno sta, per sua natura, dalla parte del male minore». Per concludere: «Alla banalità del male, che elimina ogni tentazione, rispondiamo con la meschinità del bene, che spesso consiste, lontano da ogni eroismo, nel dare ascolto ai propri interessi». E poi: «La lotta contro la corruzione in nome della sacrosanta "trasparenza", non solo rischia di avvelenare i rapporti sociali, ma minaccia anche di impoverirci; prima di intraprendere le consuete crociate contro i fondi neri, i nostri uomini politici dovrebbero calcolare quanti punti di Pil bisognerebbe sacrificare per vivere in un mondo onesto, in cui i contratti si firmassero alla luce del sole e venissero regolarmente denunciate tutte le transazioni». Una tesi ardita come del resto l’intero contenuto di questo libro. Ma meritevole di una qualche riflessione.
Paolo Mieli