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 2010  novembre 28 Domenica calendario

LA SPOON RIVER DOVE ROMA VA A PIANGERE


Il Bersagliere di Publio Morbiducci corre col fucile in mano verso Porta Pia, il centro della città, il cuore dell’Unità d’Italia, e volge le spalle alla Nomentana, incurante dello stradone che si dipana pigramente verso est nel caos mediorientale di ogni giorno.
Per chi vive a Roma, è difficile non associare la Nomentana al bailamme del traffico, agli ingorghi, ai clacson, alle auto parcheggiate sotto i platani e in ogni interstizio libero. È un’arteria cruciale che taglia la metropoli in due. Parte tra il verde di alcune delle più belle ville storiche e le ambasciate, e digrada verso una periferia sempre più disordinata. La Nomentana è lo specchio di Roma, o almeno uno dei suoi tanti specchi. Ma è anche sinonimo di una lunga sequela di incidenti mortali, che negli ultimi anni hanno segnato la cronaca cittadina. La morte della suora laica Manuela Camagni, una delle quattro Memores Domini che formano la Famiglia pontifica, è solo l’ultima in ordine di tempo. Soprattutto tra l’angolo con via Regina Margherita e quello con via XXI Aprile, il tasso di morti e feriti è impressionante, talmente alto da apparire ordinario, un fattore quotidiano da mettere nel conto delle cose. Ed è proprio questa ordinarietà a far sì che quegli incidenti escano dalla fredda cronaca e rilevino qualcosa di più profondo, che riguarda la vita metropolitana e il suo assurdo rapporto con la morte da incidente automobilistico. Una di quelle cose che nessuno come il grande scrittore inglese James Ballard, da Crash in qua, ha saputo indagare così a fondo.
Basta inoltrarsi per la Nomentana, volgendo le spalle al Bersagliere, per accorgersene. All’incrocio con via Regina Margherita si fronteggiano due epigrafi improvvisate. Su un lato si ricorda Rocco Trivigno, su quello opposto Alessio Giuliani e Flaminia Giordani.
Rocco fu ammazzato il 18 luglio. Aveva 20 anni. Era in macchina con la sorella Valentina e un altro ragazzo, Nicola. Vennero travolti da un furgone, appena rubato, che procedeva a oltre 160 chilometri orari in piena città. Era guidato da un moldavo di pochi anni più grande di Rocco, Ignatiuc Vasile. Avrebbe voluto seminare la polizia che lo inseguiva. L’impatto fu violentissimo. Rocco morì poco dopo il ricovero.
Alessio e Flaminia vennero invece uccisi due mesi prima, il 22 maggio dello stesso anno. Erano usciti in motorino per andare a San Lorenzo. Avevano rispettivamente 23 e 22 anni, erano studenti di economia, erano fidanzati. Allo stesso incrocio vennero travolti da una macchina che procedeva, come il furgone, a barbara velocità. Al volante Stefano Lucidi, cui era stata ritirata da poco la patente, e che in seguito sarebbe risultato positivo al narcotest. Lucidi scappò nella notte, senza soccorrere i ragazzi, con la fidanzata sul sedile accanto che gli gridava: «Sei un bastardo, li hai ammazzati, fammi scendere».
I due casi hanno avuto un simile iter giudiziario. In primo grado, per la prima volta in Italia, entrambi gli imputati sono stati condannati per omicidio volontario. Ma in appello la condanna è stata ridotta, e il reato derubricato in omicidio colposo. Molto si è discusso, in tv e suoi giornali, di entrambe le sentenze, giudicate troppo miti. Quel che resta, oltre al dolore immenso, composto e non vendicativo, delle famiglie, sono queste due epigrafi che si fronteggiano in maniera surreale.
Intorno a un palo della luce, Rocco Trivigno è ricordato con molte foto attaccate con lo scotch e mazzi di fiori raccolti sull’asfalto. C’è anche una lettera, stampata su foglio A4, scritta da una ragazza. Definisce Rocco “figlio della Lucania”, e ricorda la sua passione per la danza di Roberto Bolle. Anche Rocco era un ballerino.
La fredda indifferenza del traffico che accarezza il palo da una parte e dall’altra, è inversamente proporzionale al calore della comunità virtuale che ricorda il ragazzo in rete. Come sempre, in questi casi, il dolore improvviso viene almeno in parte lenito dall’accumulo di pagine e pagine, di foto e foto, su Internet. Basta fare una ricerca su Google. Così si scopre che Rocco, con il suo casco di ricci neri, veniva da Accetturra, Lucania profonda. Era uno scout, impegnato in parrocchia prima di trasferirsi a Roma. Una foto lo ritrae vestito da Gesù Cristo con la corona di spine in testa e una croce sulle spalle durante i riti della settimana santa.
Anche per Alessio e Flaminia, i materiali in rete sono tantissimi. L’altarino che li ricorda è a meno di trenta metri da quello di Rocco. Sorge intorno ad altri due pali mezzi arrugginiti, sulla striscia di asfalto che separa le corsie centrali da quella laterale per il traffico locale. È molto curato. Ci sono piante grasse, fiori, gigli in vasi di terracotta messi uno accanto all’altro. La squadra di calcio in cui Alessio giocava ha fatto costruire una lapide con la foto dei due fidanzati. Ha un basamento di 50-60 centimetri. Su due pali sono legate cinque, sei sciarpe. Tre sono giallorosse.
Il portiere dello stabile di fronte all’altarino sostiene che l’indifferenza è solo apparente. In realtà, i due incidenti sono stati un fortissimo shock per tutta la zona. «Vengono spesso, molti ragazzi. Si fermano, pregano, scattano qualche foto con i cellulari e se ne vanno... Fu un fatto terribile, lei se lo ricorda, no?».
Manuela Camagni, la donna della comunità delle Memores Domini, è stata investita più avanti, all’altezza di via Pola, poco dopo Villa Torlonia. Non ci sono ancora fiori che la ricordano, eppure il Papa addolorato – per la prima volta – ha scritto su L’Osservatore romano un necrologio in prima persona «per l’improvvisa scomparsa della collaboratrice», che insieme alle altre sorelle della Famiglia Pontificia era stata ricordata nel libro-intervista appena uscito Luce del mondo.
Poco oltre, all’incrocio con via Carlo Fea, davanti a Villa Mirafiori, c’è il platano di Rino Gaetano, proprio accanto alla fermata del 60, storica corsa dell’Atac, che il cantautore immortalò in Tu, forse non essenzialmente tu: «Avrei bisogno sempre di un passaggio, ma conosco la coincidenza del 60 notturno, lo prendo sempre per venir da te...».
Sul platano ci sono tre foto del cantautore protette dalla pioggia con il nastro adesivo. Rino Gaetano morì a solo 30 anni il 2 giugno del 1981 proprio in questo punto della Nomentana. Pochi giorni prima era stato coinvolto in un altro incidente, ma ne era uscito illeso. La sua auto, una Volvo 343, risultò completamente distrutta, e Rino ne acquistò subito una identica, con la quale – pochi giorni dopo – si schiantò contro un camion.
Quella sera Rino Gaetano, benché in fin di vita, fu rifiutato in ben cinque ospedali della capitale perché non c’era posto. Pochi sanno che le circostanze della morte sono incredibilmente simili alla storia raccontata in una sua canzone poco nota di oltre dieci anni prima, La ballata di Renzo. Quasi prefigurando quanto sarebbe accaduto, Rino cantava in quei versi: «Quel giorno Renzo uscì, andò lungo quella strada / e una Ferrari contro lui si schiantò / il suo assassino lo aiutò e Renzo allora partì / verso un ospedale che lo curasse per guarir. / Quando Renzo morì io ero al bar. / La strada era buia si andò al San Camillo / e lì non l’accettarono forse per l’orario / si pregò tutti i Santi ma s’andò al San Giovanni / e lì non lo vollero per lo sciopero...».
Procedendo oltre l’incrocio con viale XXI aprile, la strada si allarga per poi restringersi di nuovo. Poi tutto digrada verso l’Aniene e verso le periferie. I casermoni uno in fila all’altro lasciano intravedere i segni di una urbanistica molto più confusa. Dopo Piazza Sempione, la Nomentana continua.
Al km 18,85, a Fonte Nuova, cinque ragazzi morirono in un terribile incidente nel maggio del 2007. Ai “ragazzi di Fonte Nuova” (Fabio, Lele, Mirko, Simone e Veronica) è dedicato un blog, molto frequentato, dove si ritrovano non solo i loro parenti e i loro amici, ma anche tantissimi uomini e donne, madri e padri, che hanno vissuto tragedie simili. Ancora una volta, in rete si è ricreata una comunità impolitica che prova a elaborare il lutto e il ricordo. Sono grida, lamenti, sfoghi sommessi, contro una assurda ecatombe percepita come ineluttabile, a Roma e altrove.