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 2010  novembre 28 Domenica calendario

«LE DUE COREE SI SPARAVANO

E NOI ITALIANI CURAVAMO I FERITI» -
L’aria di montagna fa bene al tenente colonnello Gianluigi Ragazzoni. Dall’altopiano di Renon, in provincia di Bolzano, arriva forte e chiara la voce di quest’uomo ormai vicino agli 87 anni e dal passato avventuroso e movimentato. Originario di Alessandria, Ragazzoni è stato militare del Regio Esercito italiano, giovanissimo simpatizzante della Repubblica di Salò, ufficiale della Marina, membro del Corpo militare della Croce Rossa. Ha rischiato la pelle, è stato ferito, è stato fatto prigioniero, stava per essere fucilato («lo sa che Giampaolo Pansa mi cita nel suo ultimo libro I vinti non dimenticano? Vada dopo pagina 300 e vedrà che si parla a lungo di me», dice con orgoglio).
Nonostante le mille peripezie Ragazzoni, al contrario di tanti suoi coetanei che vissero quegli anni di ferro e di fuoco, l’ha scampata. È stato uno studente modello, ha fatto collezione di lauree in campo medico e fino a 72 anni ha lavorato come farmacista a Collalbo di Renon, in Alto Adige. «Sto bene fra le montagne», confida, «anche se qui parlano tutti tedesco e non è facile adattarsi. Arrivano a malapena anche i giornali italiani e per leggere l’articolo che sta scrivendo mi sa che dovrò andare a cercare Il Riformista fino alla stazione di Bolzano, a meno che non mi fa spedire una copia».
Abbiamo stanato Ragazzoni fra le sue montagne perché, ora che il cannone è tornato a sparare nei dintorni del 38° parallelo, si riaprono pagine di storia dimenticate. E Ragazzoni, insieme ad altri nostri connazionali, ne ha scritto una legata alla guerra di Corea, il primo grande conflitto armato che scosse il mondo nell’epoca della “guerra fredda”. Nello scontro fra la Corea del Nord e la Corea del Sud, una guerra che mobilitò anche americani, sovietici e cinesi, l’Italia fece una sua piccola parte. Sia chiaro, gli italiani non spararono un colpo. Ma fecero quello che hanno sempre saputo fare bene: l’assistenza umanitaria.
Quando alla fine del giugno del 1950 le truppe nordcoreane invasero la Corea del Sud ci fu l’intervento immediato dell’esercito degli Stati Uniti in difesa di Seul. In seguito, su mandato dell’Onu, si creò una forza multinazionale (con truppe inviate da 15 nazioni) sotto il comando del generale americano Douglas Mac Arthur. L’Italia, che ancora non era entrata nelle Nazioni Unite, partecipò inviando in Corea personale medico insieme ad altre quattro nazioni: Norvegia, Danimarca, Svezia e India.
Era il 20 settembre del 1950 quando il Consiglio dei ministri deliberò di porre a disposizione del Segretario generale dell’Onu un ospedale gestito dal Corpo Militare della Croce Rossa Italiana. Gianluca Ragazzoni fu tra i partecipanti a quella missione e oggi presiede l’Associazione Reduci di Corea. Ormai i reduci sono rimasti in pochi. Oltre a Ragazzoni restano Marcello Randaccio, Federico Bonacina, Giovanni Canali, Emilio Donatoni, Giovanni Riboldi e l’ultracentenaria infermiera volontaria Alma Pascutto.
La missione partì dal porto di Napoli il 16 ottobre 1951 a bordo della motonave statunitense “General Langliff”, giunta da Rotterdam. Il materiale caricato a bordo riempiva undici vagoni ferroviari. La partenza dal Molo Angioino fu salutata dalle autorità: il presidente della Croce Rossa Mario Longhena, il sottosegretario Paolo Emilio Taviani e l’Ordinario militare Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone, che portò la benedizione del Papa. Il primo a montare sulla passerella per salire a bordo fu il cagnolino Ricardo, un cucciolo di boxer di quattro mesi, mascotte della spedizione. Poi salirono gli altri. In tutto 71 persone tra ufficiali, sottufficiali, infermiere volontarie, graduati e militari. Le crocerossine indossavano la divisa bianca con la croce rossa sul petto, il capo coperto dal velo blu.
La navigazione durò un mese. Rievocando quella lunga traversata in una recente intervista curata dal Tenente Colonnello Claudio De Felici, la “sorella” Alma Pascutto ha ricordato un dettaglio curioso: «Il comandante della nave raccomandò alla nostra capogruppo di non portarci sul ponte principale durante la navigazione, in quanto con il forte vento le gonne si sarebbero sollevate offendo ai marinai e agli altri militari uno spettacolo “particolare”». La nave attraccò nel porto di Pusan e l’ospedale, che prese il nome di H 68, fu allestito in due edifici scolastici di Yong Dung Po, vicino a Seul, aggregato come unità medica all’8a armata dell’esercito americano. L’ospedale disponeva di 150 posti letto e garantiva cure di chirurgia, medicina e pediatria. In più c’erano anche due ambulatori.
I ricordi più vivi della crocerossina Pascutto e di Gianluca Ragazzoni sono «il clima rigidissimo» e «la grande miseria». «La guerra», ricorda oggi Ragazzoni, «aveva lasciato la popolazione civile senza assistenza medica. Gran parte dei medici erano al fronte, oppure prigionieri. La gente se la passava molto male e molti morivano letteralmente di fame. Noi per fortuna avevamo le nostre scorte e i rifornimenti che ci garantivano gli americani». La guerra era a un passo. «L’ospedale», continua Ragazzoni, «si trovava a 18 chilometri dalle prime linee e sentivamo tuonare il cannone. Una volta fu anche mitragliata una nostra jeep mentre ci stavamo recando a prendere scorte di medicinali dagli americani. Io rimasi ferito alla testa e in varie parti del corpo insieme a due altri commilitoni». L’ospedale lavorò a pieno ritmo in tutti i reparti. Poi c’erano le visite ambulatoriali. Ragazzoni, che allora dirigeva il laboratorio di analisi, ricorda che spesso gli americani facevano a Seul delle retate di prostitute e poi gli portavano le ragazze per farle controllare. «Sa, con tutti quei soldati in giro e la prostituzione fiorente c’era il timore concreto che si potessero diffondere malattie veneree».
Fra il dicembre del 1951 e il dicembre del 1954 l’ospedale della Croce Rossa Italiana fornì 230mila prestazioni di ambulatorio, i pazienti ricoverati furono oltre 7mila, gli interventi chirurgici oltre 3.200. Ci fu anche l’emergenza di due disastri ferroviari. Nel settembre del 1952, quando gli italiani trasportarono con i loro automezzi 160 infortunati, e nel gennaio del 1954, quando H 68 accolse 55 feriti, molti dei quali bisognosi di interventi chirurgici urgenti. L’ospedale fu distrutto da un incendio nel novembre del 1952, ma per fortuna non ci furono vittime fra il personale medico e fra i degenti. «Mettemmo in salvo tutti e salvammo anche le attrezzature, così in poco tempo ricostruimmo l’ospedale, ancora più grande e più bello di prima», ricorda Ragazzoni.
I rapporti con la popolazione furono sempre ottimi. «Certo per noi la lingua fu un po’ un ostacolo», ammette Ragazzoni, «ma i coreani erano svelti a imparare e fra il personale locale impegnato nell’ospedale molti impararono l’italiano. Ricordo che un assistente di cucina si mise a parlare con accento piemontese perché passava ogni giorno accanto al cuoco, che veniva da Cuneo».
L’ospedale cessò il suo servizio alla fine del 1954 e tutte le strutture vennero lasciate ai coreani. Gli italiani ottennero riconoscimenti ufficiali dal governo coreano e dagli Stati Uniti. Il comandante dell’ospedale, il maggiore Fabio Pennacchi, fu anche ammesso alla firma dell’armistizio fra le due Coree nel 1953 a Panmunjon. Meno di un anno dopo la fine della missione, il 14 dicembre del 1955, l’Italia entrò a far parte delle Nazioni Unite.
«Possiamo essere orgogliosi di aver scritto una bella pagina di storia e di aver fatto fare bella figura all’Italia. Peccato che in pochi si ricordino di noi. La Croce Rossa Italiana ci ha sempre ricordato, ma il ministero della Difesa ci ha completamente dimenticati», lamenta Ragazzoni.
Il governo coreano, ogni anno, invita i reduci in Corea per una commemorazione. Ma ormai Ragazzoni e gli altri superstiti non riescono più ad affrontare il viaggio. Alla cerimonia di quest’anno c’era il Tenente Colonnello Claudio De Felici (del Corpo militare della Cri), accompagnato da una decina di persone, parenti di reduci.
I coreani furono riconoscenti verso gli italiani fin dal momento del loro sbarco a Pusan nel 1951, ma commisero una doppia gaffe. Infatti per l’occasione il governo emise un francobollo nel quale però la bandiera italiana era ancora rappresentata con lo stemma sabaudo sovrastato dalla corona. L’Italia protestò e i coreani stamparono un nuovo francobollo, ma nel campo bianco del tricolore misero ancora lo stemma dei Savoia, questa volta senza corona. L’Italia protestò di nuovo e il francobollo fu ritirato dopo pochi giorni, per la gioia dei collezionisti che ne entrarono in possesso.