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 2010  novembre 30 Martedì calendario

I LORO 9 MESI DI ATTESA VALGONO 6MILA EURO

All’ingresso, il padre e la madre appesi in due ritratti. Ci raccontano l’amore di una figlia e ci ricordano come è da un padre e da una madre che nasce una vita, qualunque sia poi l’incastro o la combinazione che la farà maturare.
Il Gujarat si affaccia sul mar Arabico, Anand è il capoluogo di una delle sue province pulsanti. Un tempo la ricchezza era data dal latte, dai grandi silos che disegnano l’orizzonte; oggi, nel mondo, la fama e i ricavi gravitano intorno a ospedali che paiono case basse, alcuni dall’intonaco fresco, altri più fatiiscenti. Qui ad Anand non si curano malattie altrove incurabili, questa non è la regione dell’Ayurveda. Qui si vende a poco prezzo la possibilità di un figlio. Qui si vende la speranza.
Speranza in hindi si dice Akanksha, ed è questo il nome che Nayna Patel ha voluto dare alla sua clinica, un palazzetto di tre piani senza fronzoli ma «fully equipped», precisa lei in inglese. Attrezzato di tutto, tutto ciò che serve per aiutare quelle coppie cui la natura ha voltato le spalle. Clinica dell’infertilità, c’è scritto sul cartello fuori, diverse strade da percorrere per raggiungere il traguardo: un bambino. Strade che si risolvono con un unico viaggio, meccaniche con cui il mondo occidentale ha ormai preso confidenza. E poi quella via che prevede il ritorno. Maternità surrogata, a parlare bene. Utero in affitto, a dirla facile.
In questo angolo di India, come ovunque nel Paese, giovani donne commerciano il grembo per ospitare un figlio non loro. Ciò che è vietato in gran parte del cosiddetto primo mondo qui non lo è più dal 2006, quando New Delhi ha regolamentato l’utero in affitto aprendo le frontiere anche agli stranieri. Boom, baby boom. In quattro anni l’invasione si è fatta barbarica, oggi si viaggia sui mille bambini "surrogati" all’anno, sei volte quelli del 2007. Mille o forse più, perché far di conto è impossibile, ci spiega la dottoressa Patel: le cliniche sono spuntate come funghi (ad Anand, 320mila anime, sono una decina, a Mumbai più di 50), lo stesso dicasi delle agenzie che via Internet offrono "pacchetti-figlio" come fossero pacchetti di viaggio, «con la conseguenza che la
competizione tra le strutture abbassa i livelli di sicurezza». L’abc del capitalismo si applica anche a ovuli, semi ed embrioni: più alta è la domanda, più alta è l’offerta, e l’India è oggi la Mecca di chi vuole un figlio così. Il perché è semplice, il più semplice: un utero in affitto negli Stati Uniti costa intorno ai 150mila euro, qui con 15mila euro, anche meno, è fatta. Al momento non c’è mercato al mondo più concorrenziale, salvo l’illegalità.
Il corpo centrale dell’Akanksha si apre su un cortile alberato, ed eccole le surrogate con le loro pance tonde, madri in prestito. Sono circa una ventina, «ma da qui ne sono passate 220», precisa Patel, per poi dirci che all’inizio era difficile trovarle, c’era diffidenza, mentre ora fuori c’è la fila, chi ha già provato si ripresenta con la sorella, un’amica. Dopo un check-up che attesta il buono stato di salute, le prescelte vivono insieme dall’inizio alla fine della gravidanza. «In un primo momento le isolavo dalla famiglia ospitandole in appartamenti in giro per la città, poi ho capito che era meglio trasferirle qui per monitorarle ed esporle a minori rischi. Senza contare l’aspetto psicologico, i benefici che può portare la condivisione». Giornate che scorrono tra corsi di inglese, lezioni di computer, visite di figli, mariti e familiari, il cui consenso è fondamentale: alla firma del contratto con i genitori committenti, la surrogata deve produrre una sorta di nullaosta di chi le sta accanto. «Mio marito è d’accordo», ci racconta Gheewala, 23 anni e due bambini suoi che l’aspettano a casa. «Con i soldi che guadagnerò potremo comprarci una casa in campagna e un pezzo di terra da coltivare». «Io invece li metterò via per far studiare le mie bambine. Voglio dar loro un futuro diverso dal mio», le fa eco Dodia, ormai prossima all’arrivo. Parole da pelle d’oca. In cambio dei nove mesi ceduti ad altre vite, queste venti ragazze guadagneranno poco più di 6mila euro ciascuna, una piccola fortuna quaggiù. «A questa cifra si devono aggiungere i costi per il trasferimento dell’ovulo fecondato nell’utero della surrogata, le spese mediche e quelle di viaggio», riprende la Patel. «Si deve venire ad Anand almeno due volte, la prima per la fecondazione, la seconda per la nascita del bambino. Dopo aver avvertito le rispettive ambasciate, il cui compito è trascrivere il certificato di nascita che porta i nomi dei soli committenti [oltre a questo, viene rilasciato anche un test del Dna che certifica come il neonato sia geneticamente legato a uno di loro o a entrambi, ndr], le coppie possono ripartire con il figlio».
Coppie, etero o gay la legge non fa distinzioni, ma anche single, che nella clinica possono trovare la parte mancante, ovulo o sperma che sia. La loro provenienza è europea per garantire agli occidentali un figlio bianco, perché chi cerca famiglia in India viene dall’Europa o dall’America del Nord, «anche da quei Paesi dove la surrogacy è legale ma costosa. Italiani, invece, non ne ho ancora conosciuti».
Mentre parla, la dottoressa accarezza con lo sguardo le sue surrogate, come una grande madre. La questione etica se sia giusto o meno pagare una donna per dare alla luce un figlio non suo resta fuori dal cancello. «Certo, la surrogacy è una transazione commerciale, ma è soprattutto altro. Queste donne aiutano altre donne a realizzare il sogno di tenere tra le braccia una nuova vita».
Dalla porta che dà alla clinica corre fuori un’infermiera. «È arrivato il momento del bambino numero 281», dice Patel prima di sparire dentro un corridoio. La speranza, questa volta per due olandesi, è di nuovo divenuta realtà.