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 2010  novembre 13 Sabato calendario

LE RICCHEZZE DEL PASSATO E I LIMITI DELLA CONSERVAZIONE - I

crolli di insigni opere murarie del nostro più grande passato nascono, secondo la mia lunga esperienza, dalla congenita antipatia della maggioranza degli italiani per il patrimonio storico-artistico e ambientale del Paese. La nostra classe media, della quale governi e Parlamenti sono l’ espressione, considera paesaggio e beni culturali palle al piede che alimentano inutili vociferazioni e bloccano lo sviluppo. È così da due secoli, gli scempi urbanistici di Venezia e Firenze nell’ Ottocento insegnano quanto altri clamorosi esempi dell’ epoca fascista e di quella successiva. Nel 2010, il paesaggio viene di regola sacrificato al profitto, alle «esigenze sociali» o al «bene della collettività», come insegnano i grandi impianti di energia solare che deturpano vaste aree della Sicilia o il via libera alle trivellazioni nella valle di Noto. Nessun uomo politico di destra o sinistra, nella prima o nella seconda Repubblica, si è poi mai sognato di inserire nella propria campagna elettorale accenni alla difesa dei beni artistici e storici; più di un pubblico amministratore, anche nel mio civilissimo Veneto, dichiara apertamente di considerare gli organi statali di tutela perniciose seccature che con i loro veti mettono i bastoni fra le ruote del progresso civile. Il fatto che il patrimonio artistico e ambientale alimenti un business che porta enormi guadagni è sottaciuto perfino dagli operatori del turismo. E allora perché ci si meraviglia che nel bilancio dello Stato la tutela di quel patrimonio sia sempre la Cenerentola, e le Soprintendenze siano sempre in crisi di mezzi e di personale? È così che si verificano catastrofi quasi sempre annunciate. Quanto al business del turismo, ricordiamoci che, quando qualcuno obiettò che lo scempio dell’ area di Gioia Tauro per impiantarvi un porto industriale avrebbe bloccato l’ auspicata valorizzazione turistica di quella splendida area, uno dei Padri della Patria, Pietro Nenni, tuonò: «Sciocchezze, il turismo passa, il lavoro resta». Alvise Zorzi Caro Zorzi, Q uando Roma divenne capitale del Regno d’ Italia, un grande storico tedesco, Theodor Mommsen, scrisse a un amico una lettera preoccupata. Temeva che i «piemontesi» avrebbero restaurato, rinnovato, costruito, e pensava che di lì a qualche tempo avremmo rimpianto persino lo stato di affascinante incuria in cui i monumenti dell’ antichità romana avevano sfidato i secoli. Capisco il suo stato d’ animo, caro Zorzi, e condivido i suoi timori. Ma occorre ricordare tre fattori che hanno avuto una influenza decisiva sulla conservazione del patrimonio artistico italiano. In primo luogo dobbiamo la sua vastità alla lunga stagnazione dell’ economia nazionale fra il Seicento e l’ Ottocento. Se lo sviluppo della penisola in quegli anni fosse stato comparabile a quello di altri Paesi europei, una parte considerevole dei nostri beni culturali sarebbe andata inevitabilmente distrutta. In secondo luogo la crescita economica e demografica ha creato una forte domanda di alloggi civili, seconde case, opere pubbliche. I governi non sono stati capaci di fissare regole e imporre limiti, ma non dovremmo dimenticare quali fossero le condizioni di vita delle classi popolari italiane prima del grande boom edilizio degli ultimi decenni. In terzo luogo la gestione del patrimonio è vittima del confuso condominio provocato dall’ evoluzione regionalista e federalista dello Stato italiano. Antonio Paolucci, ministro dei Beni culturali nel governo di Lamberto Dini e oggi direttore dei Musei Vaticani, ha detto nel corso di una intervista televisiva che la gestione e la valorizzazione di un bene culturale dipende dal contesto in cui è collocato e che in un’ altra regione il crollo di Pompei probabilmente non avrebbe avuto luogo. Questo non toglie nulla alle responsabilità dello Stato, ma serve a comprendere quali e quanti problemi condizionino la gestione del nostro patrimonio.
Sergio Romano