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 2010  novembre 13 Sabato calendario

COMPAGNI GUAI A VOI SE DIVORZIATE

Si vantava di essere un marito “aperto” che nessuna donna era riuscita a domare. Sfoggiava senza pudori la sua “inappagabile curiosità”, il suo ”ossessionante bisogno di esperienze”, “quel non sapere o non voler dare alla donna non dico la certezza, ma neppure l’illusione di essere l’unica donna da noi amata, la donna riassuntiva, la stella polare del nostro viaggio in questa terra”. Sosteneva che l’uomo “è sempre uccello da preda e anche quando va al cimitero a portar fiori alla sua diletta contiene in nuce quel personaggio di Maupassant che trova tra le tombe la nuova anima gemella”. Il compagno Leonida Repaci, antifascista della prima ora, collaboratore di Gramsci e fondatore del Premio Viareggio, era fatto così. Un professionista della politica che amava la vita e le donne. Un autentico tombeur de femmes molto distante dall’archetipo del comunista tutto d’un pezzo. E certo l’antitesi vivente del maschio illuminato pronto a immolarsi per le pari opportunità.
CHE IL MENSILE storico del movimento femminista, Noi donne, abbia affidato una rubrica a uno come lui, può sembrare incredibile. Ma è successo davvero. Per alcuni mesi, nel lontano 1953, sulla rivista di Ada Gobetti e Camilla Ravera, il “leone mai domo” dispensò alle lettrici la sua leggendaria competenza in materia di psiche femminile. Chicche sfiziose, che vale la pena di rileggere. La prima puntata è dedicata alla virtù più scontata del “sesso debole”: la pazienza. Leonida cita l’esempio di tante “partigiane, popolane, mondine e cogliolive” (sic): “Esse sono il momento finale e catartico di quel poema di sacrificio che si svolge e consuma tra le pareti di casa, nella famiglia, dove la donna è angelo di pazienza”. E tale è destinata a rimanere, se vuole evitare la sorte delle “ribelli” tipo Karenina o Bovary. Ma Repaci non dimentica la sua fede politica e sa distinguere tra donna e donna, tra classe e classe. Secondo lui la proletaria, a differenza della piccolo borghese, non è afflitta dalla “idolatria del matrimonio”, sa di dover lavorare il doppio una volta sposata. Per questo “il matrimonio tra poveri è un atto rivoluzionario”. Lo scrittore plaude alla disponibilità di tante compagne a cogliere non solo le olive ma “le occasioni che si offrono per migliorare il loro stato e alleggerire all’uomo la fatica di mandare avanti la casa e la famiglia…”. L’essenziale è che non perdano la femminilità. “La donna deve restar donna”. Guai a diventare una Bindi, chioserebbe qualcuno di nostra conoscenza.
DI QUESTE e d’altre perle è ricchissimo il libro di Maria Casalini, Famiglie comuniste (Il Mulino, pagg. 334, euro 26,00), vasta e gustosa panoramica sul rapporto tra ideologie e vita quotidiana nell’Italia degli anni Cinquanta. Intendiamoci: per dirla con monsignor Fisichella, ogni cosa va contestualizzata. Se le idee di un Repaci vi suonano giurassiche, leggete cosa consiglia alle ragazze cattoliche il coevo padre Atanasio su Famiglia cristiana: castità, modestia, “non cedere” alla tentazione del sesso, “arrivare all’altare con il corpo intatto”. I fidanzati che “solevano accondiscendere ai propri desideri, anche se turpi”, giunti al matrimonio ritrovano “tra le mura domestiche, tristezza, pianto e disprezzo scambievole”.
Ma come fa notare Maria Casalini, con la morale cattolica quella comunista aveva più di un punto in comune. Non soltanto nella Sicilia di Concetta La Ferla, la mitica pasionaria del Pci di Caltagirone, che nel suo diario ricorda come fino a due mesi prima delle nozze, nel 1954, lei e il futuro marito non avessero “alcuna libertà”, tanto che passavano le serate giocando a carte con mammà nel mezzo “a fare da guardia”. Anche nel resto del paese, per i compagni degli anni Cinquanta la famiglia è un perimetro sacro da presidiare contro la disgregazione morale indotta dal capitalismo. Nella sua rubrica di posta sull’Unità del lunedì, il filosofo Antonio Banfi denuncia l’imperante “americanismo”, i film e i fumetti che propagandano “la baldoria sanguinosa e sensuale alla Far West”, spingendo le giovani generazioni a trattare “i vecchi da impiccioni, le donne da prostitute”, e rivaluta i sani principi borghesi della famiglia come “base dello sviluppo economico e fonte di salde virtù, la fede nel risparmio, nell’ordine, nel reciproco controllo, nella dignità personale”.
LA PEDAGOGIA familiare comunista trova la sua incarnazione più alta in Emilio Sereni e nella moglie Marina, che confessa: “Il partito si è fuso per me con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti”. Che poi in nome della rivoluzione “le figliette” fossero private dell’affetto di papà e mamma, era un “danno collaterale” doloroso ma inevitabile. Negli anni del dopoguerra, la famiglia è al centro delle campagne elettorali e se i manifesti democristiani mostrano madri eroiche intente a strappare i propri figli alle fauci dei draghi sovietici, quelli del Pci raffigurano genitori e figli in marcia verso il sol dell’avvenire. E il prototipo della “coppia militante”, sulla falsariga Iotti-Togliatti, domina perfino nei comizi. Lui, lei e il Partito. Sesso diverso (l’omosessualità è ancora tabù), stesso colore politico. “Se poi i due erano davvero sposati – nota Maria Antonietta Macciocchi – era l’apoteosi”. Le prime incrinature in questa iconografia del benpensante di sinistra cominciano ad affiorare nel 1956, dopo il rapporto Kruscev e i fatti d’Ungheria, ma anche con l’avvento della televisione, del juke box e del rock and roll. Non a caso è in quell’anno che Noi donne comincia timidamente ad affrontare temi scottanti come gli anticoncezionali, il parto indolore, i figli nati fuori dal matrimonio, le spose bambine e l’adulterio. Più tardiva la mobilitazione a sostegno della legge Merlin, cui una larga fetta di opinione pubblica, anche femminile e di sinistra, addebita una presunta degenerazione dei costumi sessuali , quasi che la chiusura dei bordelli avesse incrementato la prostituzione. E il divorzio? Altro terreno minato, dal quale il partito si tiene prudentemente alla larga. A Botteghe Oscure, ricorda Miriam Mafai, “il matrimonio è indissolubile, né si pensa minimamente di mettere in dubbio questo principio”. E questo benché non sia facile, neppure in quell’epoca, trovare tra i dirigenti uomini che incarnassero l’ideale coniugale comunista. Per usare le parole di Casalini: “Si fa prima a citare Amendola e Ingrao come gli unici mariti innamorati e strettamente monogami”.
EPPURE , quando finalmente nel 1964 le pagine di Rinascita si aprono a un dibattito sul divorzio, è proprio Palmiro Togliatti (adultero e convivente di fatto), a buttare acqua sul fuoco degli entusiasmi, per timore di guastare i rapporti col mondo cattolico. Anche sul fronte delle pari opportunità, certi stereotipi sono duri a morire, e perfino le donne militanti sembrano restie a mettere in discussione gli equilibri tra i sessi. Nel 1957, tale Rosina B. di Bologna confessa a Cesare Zavattini: “Io sono arrivata a un certo risultato lavorando da sola, ma se avessi vicino un uomo vorrei che fosse un uomo, che sapesse consigliarmi e dirigermi… Non come in America dove l’uomo va a casa e aiuta a fare i piatti”.
Bè, a mezzo secolo di distanza possiamo dire che la compagna Rosina è stata esaudita. L’America resta lontana, e gli ultimi dati Istat confermano che la donna italiana ha un’ora di tempo libero in meno del partner (di destra o di sinistra che sia). La famiglia deve essere fondata sul matrimonio e orientata alla procreazione, secondo il dettato costituzionale. Ma i pannolini li cambia lei, con il plauso di Giovanardi.