Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

MA SIAMO SICURI CHE QUESTA L’HO DETTA IO?

[Intervista ad Antonio D’Orrico]
Cambiare vita non fu un suo libro, dottor D’Orrico? La nuova scommessa, cambiare città, lavoro. E com’è che fa il critico letterario, sempre a Milano, in Rizzoli, da quarant’anni?
«Se è per questo, un anno dopo Cambiare vita, pubblicai un altro libro, Momenti di gloria. Non ho cambiato vita e non ho avuto momenti di gloria. Diciamo che con i titoli non sono fortunato. Speriamo in bene con il prossimo».
Il cui titolo è?
«Come vendere un milione di copie e vivere felici. Spero tanto che funzioni, stavolta».
Si vive più di una volta sola, diceva il sottotitolo di Cambiare vita. Siamo gatti?
«È vero che si vive più di una volta sola. E lei lo sa benissimo. Mi avevano detto che lei era morto e, invece, me la ritrovo qui davanti, in ottima salute e di buon appetito, a mangiare al ristorante Rigolo. Lo sa che cosa mi disse Gaetano Afeltra quando arrivai al Corriere?».
No che non lo so.
«Mi disse: “L’hai prenotato il tavolo da Rigolo?”. Io dissi di no. E lui mi istruì: se vuoi diventare un grande giornalista milanese devi prenotare ogni giorno un tavolo da Rigolo, poi se non ci vai non fa niente. Però, intanto, l’hai prenotato e il tuo nome comincia a circolare».
Quarant’anni da Rigolo.
«Io preferisco il grande Bebel, in San Marco».
Come bar?
«Pasquale Tedone, in Solferino: c’è Mario, il Mourinho dei barman».
A proposito di Cambiare vita, aggiunse: «Ho scritto un libro contro gli anni Ottanta, gli anni del benessere, delle sicurezze, delle scalate sociali». Mi sembrò una minchiata: o è per gli anni del malessere, delle insicurezze e dell’immobilità sociale?
«Terribile minchiata. Sicuro che l’ho detta io, una cosa del genere?».
Certissimo.
«Cos’era? Un’intervista? Perché si sa che cosa sono capaci di farti dire i giornalisti. Ad esempio, quest’intervista con lei non c’è mai stata. Ci siamo incontrati da Rigolo dopo una vita che non ci vedevamo, abbiamo mangiato porcini alla genovese, abbiamo bevuto qualche bicchiere di Chianti e un paio di grappe, abbiamo parlato dei vecchi tempi, di amore, calcio, senso di morte e dentisti. Però non era un’intervista. Piuttosto una rimpatriata. Le piace, la parola “rimpatriata”? A me no».
La trovo bellissima. Rimpatriata. Rimpatriata. Rimpatriata.
«Si vede proprio che è diventato di destra».
Un suo nuovo libro, ed è polemica. Ha detto: «Se i miei colleghi vogliono giocare sporco con me, lo facciano pure: non mi farò spaventare». Chi dovrebbe giocare sporco?
«Andrea, siamo seri, le pare possibile che io usi la parola “colleghi”? Mi ci vede? La parola “colleghi” è come la parola “rimpatriata”».
Colleghi. Colleghi. Colleghi.
«Non sono fatto per queste cose. Ho scritto Momenti di gloria e mi sono trovato in mezzo a gente che pensava solo alla carriera».
Non sta rispondendo.
«Le rispondo. C’è gente (le faccio un po’ di cognomi alla rinfusa: Serino, Scarpa, Onofri, Mascheroni, Parente, Langone) che parla male di me. Dice che faccio marchette (cioè prendo i soldi dagli editori), che parlo di libri come un dj parla di dischi, che recensisco solo amici o colleghi (ancora, con questi colleghi), che scopro ogni settimana lo scrittore più grande del mondo, che sponsorizzo i libri della Mondadori perché la Mondadori è la casa editrice del Corriere, dove lavoro».
Che fa? Mi tira scemo?
«Capisce? Alcuni di questi non sanno nemmeno che l’editore del Corriere è la Rizzoli, cioè la concorrente diretta della Mondadori. Che devo fare con questi ragazzi? Li lascio fare. Tra l’altro non li conosco nemmeno, a parte Scarpa (gli pubblicavo i primi articoli quando era ragazzino e facevo il tifo per lui assieme a Roberto Rossi, che è il più grande critico italiano ma nessuno lo sa). Comunque, non ho nemici, i nemici si scelgono».
Perciò: un ultrasessantenne e benestante vitellone pescarese perde la testa per una giovane cantante lirica. Lui chiede aiuto a uno psicanalista e a un investigatore. Lo psicanalista gli chiede di trascrivere i sogni. L’uomo, che non riesce a dormire né a sognare, inventa una serie di incubi… È questa la falsariga del suo primo romanzo?
«No. Questo era uno schema della primissima lavorazione. Poi è cambiato tutto. Adesso ci sono giornalisti, scrittori, boss della mafia, papi, premi Nobel, premi Oscar. E ci sono amori, morti, feriti, molto sesso. È un romanzo scritto senza badare a spese, un kolossal, al quale hanno contribuito anche Pirandello, D’Annunzio, Tozzi, Pasolini, Giuseppe Gioachino Belli, Flaiano, Kafka, Nabokov. Insomma, la crème de la crème che ho invitato a questa grande festa romanzesca e mi pare che si siano proprio divertiti. E io con loro. E anche i lettori si divertiranno (garantito)».
Ora glielo richiedo. Davvero non pensa di avere nemici nel suo ambiente? Sarebbe l’unico ambiente senza nemici.
«Davvero, non ho nemici. E poi, il vero problema dell’ambiente non sono i nemici, sono gli amici. Creda a me. Guardi lei, che è un amico, che razza di intervista mi sta facendo».
Il compagno D’Orrico con Mondadori editore. Ci accenni tutto il suo disprezzo per il Berlusconi politico e tutta la sua ammirazione per il Berlusconi editore. Metta un paio di chilometri tra lei e Vito Mancuso.
«La Mondadori è una grande casa editrice (basta solo vedere la copertina del mio romanzo, che è da urlo). Berlusconi non dovrebbe esserne il proprietario perché il famoso lodo non si svolse correttamente: fu dolo, più che lodo».
Non sono d’accordo, aveva ragione il mio padrone.
«Detto questo, chi si è lamentato, in questi anni, dicendo che Einaudi avrebbe rifiutato libri come quelli di Raboni, di Cordelli o di Belpoliti perché parlavano male di Berlusconi, si sbaglia ed è in malafede. Quei libri erano brutti e un editore ha il diritto di non pubblicare libri brutti».
Ehilà!
«Da Mondadori sono usciti libri che parlavano male di Berlusconi, gliene cito almeno due: il romanzo di Tiziano Sclavi e l’autobiografia di Shel Shapiro. Questo per quanto riguarda la sinistra. Per quanto riguarda la destra, vedo che continua ad attaccare scrittori come Camilleri, perché è di sinistra ma pubblica (anche) con Mondadori e lo accusano di farlo per prendere i soldi da Berlusconi».
Certo che prende i soldi da Berlusconi.
«Questa è una stronzata (e anche qui c’è un sacco di malafede). Non si è capito come funziona una casa editrice. Uno scrittore come Camilleri fa guadagnare un sacco di soldi all’editore (in questo caso Berlusconi), non è Berlusconi che fa guadagnare un sacco di soldi a Camilleri. Ora se si fa finta di non capire nemmeno questo, che è elementare, aritmetico, è inutile continuare a discutere».
I chilometri da Vito Mancuso?
«Su Mancuso le dico una cosa. Ho letto quest’estate i suoi articoli e sono rimasto secco per la qualità delle sue argomentazioni. Questo sarebbe un teologo? Allora mi è tornato un vecchio sospetto: Dio è una cosa troppo seria per essere spiegata dai teologi. I poeti lo hanno fatto meglio».
Che tempi, quelli del processo a Feltri all’Europeo del 1989. Eravamo come i nipotini del Violante prima maniera. Una frase di Feltri, e processo pubblico. Un’altra frase, altro processo. Personalmente mi divertii come un pazzo, certo che carino non era.
«A Berlino cadeva il Muro, a Milano cominciava a cadere L’Europeo, che era stato proprio un bel giornale. Il management... – che brutta parola, peggio di “rimpatriata”, di “colleghi”».
Il management. Il management.
«...Quello della Rizzoli di allora sacrificò la migliore redazione giornalistica che c’era su piazza, una specie di suicidio aziendale. Perché lo fece? Perché a Lamberto Sechi…»:
Parlavamo di Feltri.
«Macché Feltri. Lui era venuto a fare il direttore e non lo volevamo. Finita lì. Ma il problema era Sechi, che era venuto a fare l’eminenza grigia, lui che era grigio sul serio. Il nostro giornalismo gli stava sulle palle, era la negazione del suo giornalismo “dei-fatti-separati-dalle-opinioni”, quella formuletta demenziale e ipocrita che ha infestato il giornalismo italiano. Sulla vicenda dell’Europeo si potrebbe fare un bel film. Il giornalismo è un’opinione, come la matematica».
È lei che ce l’ha con Massimo Onofri o è Onofri che ce l’ha con lei?
«È lui che ce l’ha con me. Ma non è un problema, per me. Come diceva il grande Bruce Willis in quel film mentre si trovava a bordo di una astronave guasta: “Houston, avete un problema”. Io non sono Houston, sono Bruce Willis».
«Trasforma la recensione in spazio performativo dove resta sempre attivo, anche quando non chiamato in causa, il personaggio lettore». Onofri dixit su di lei. Ce la spieghi.
«Penso che voglia dire che faccio spettacolo quando scrivo e lo faccio in onore del lettore. Mi sembra il miglior complimento da fare a un giornalista».
Faletti e D’Orrico.
«Giorgio Faletti è una persona di squisita umanità e sensibilità. Di lui come scrittore si sa cosa penso. Poi è un umorista eccezionale, anche nella vita. L’ultima volta ci siamo sentiti al telefono e mi raccontava che l’avevano invitato a un evento e non sapeva se accettare. Gli ho chiesto se gli davano un gettone di presenza. E lui mi ha risposto: è per questo che sono indeciso, più che un gettone è un disco volante».
Piperno e lei.
«Di grandissimi scrittori, in un Paese, ne nascono al massimo quattro o cinque in un secolo. Beh, in Italia, credo che uno di quei posti se lo sia già preso Piperno. Un altro Gaetano Cappelli. Un altro Niccolò Ammaniti».
Richler e lei.
«Purtroppo non l’ho conosciuto di persona ed è stato un dispiacere».
Adelphi si seccò col Foglio, la sinistra si seccò col Foglio, anche lei si disturbò per l’adozione di Barney da parte del Foglio. Rivendicò un diritto di prima scoperta.
«No, non mi arrabbiai per niente. Qualcuno del Foglio si arrabbiò con me. È un meccanismo che capita spesso. Tipo: i ragazzi del Giornale non leggono e accusano me di non farlo. Per tornare a Barney, il fatto è che in Adelphi stamparono una tiratura nuova dopo che era uscito il mio articolo e andò tutta esaurita».
Richler volò di suo, però in Italia grazie al Foglio. Lei capì subito il romanzo, ma non faccia il furbo.
«Sono anni che creo casi letterari, quanti saranno stati? Va bene, uno ve lo regalo volentieri, voi foglianti mi state molto simpatici».
Vada a cagare.
«Lei, Andrea, nonostante la bravura di Giamatti nel film, resta il più grande Barney che c’è in giro, una reincarnazione, direi».
Lei sostiene che D’Orrico promuove la lettura, ma che in giro lo negano.
«Succede spesso. Lo chieda agli editori. A me non fa né caldo, né freddo. Non vendo mica libri. Però se poi la gente, come Gian Arturo Ferrari, ex boss Mondadori, o il mio amico Paolo Di Stefano, continuano a dire in giro che i recensori oggi non influenzano le scelte del pubblico, capirà che a me scappa da ridere. I recensori no, ma un recensore sì. Gli costa tanto ammetterlo? Tra l’altro, Ferrari, come Mondadori, ha beneficiato dei lanci alla D’Orrico, come li chiamano, e lo sapeva benissimo. E con questo rispondo a quelli che dicono che faccio marchette per gli editori. Agli editori dà fastidio che qualcuno faccia quello che faccio io con i miei articoli. Gli editori sono presuntuosi. Si dice che i critici sono invidiosi ma i veri invidiosi sono gli editori. Quasi tutti».
Ha mai raccontato un libro senza leggerlo?
«No, ma una volta ho scritto di un libro di cui parlavano due tizie sedute accanto a me in un caffè. Se lo raccontavano a vicenda, ho seguito la loro conversazione e poi ci ho fatto un pezzo. È una cosa che mi piacerebbe rifare, imparai un sacco di cose su come la gente legge».
Ha mai giudicato un libro leggendone una sola pagina a caso?
«No».
Ha mai avuto la sensazione che qualche suo collega abbia recensito senza leggere?
«Non li leggo, quelli che lei si ostina a chiamare i miei colleghi. Mi rovinerebbero lo stile».
Davvero meglio leggere Faletti e Vitali che Kafka e Musil?
«E chi ha mai detto una cazzata del genere?».
Lei.
«Io scrivo su un giornale di attualità e quindi scrivo dei libri nuovi che escono. Come da contratto di lavoro giornalistico».
Le hanno contestato di aver recensito su Sette, in un mese, nell’ordine: Fuoco amico (398 pagine), La breve favolosa vita di Oscar Wao (346), I racconti di Nabokov (758), Bambino 44 (444), di aver intervistato Gennaro Gattuso su un libro di 134 pagine, scelto l’anticipazione di Lucrezia Lerro (136), recensito altri tre libri per complessive 680 pagine. In un mese, cioè, avrebbe letto 5.328 pagine, 178 pagine al giorno tutti i giorni. Che ritmo!
«Innanzitutto, ci sono le bozze, io leggo i libri in anteprima. Guardi: oggi sto scrivendo di Irving che ho letto a fine luglio. Faccia rifare i conti ai ragazzi del Giornale anche pensando al fatto che una quota di libri di cui parlo sono riedizioni di libri che ho letto anni fa e che nella mia pagina c’è anche un settore in cui non faccio recensioni ma pesco in un libro una cosa curiosa, una bella o brutta frase, e così via. E comunque 200 pagine in una mattinata si leggono, si leggono. Poi se i ragazzi non sanno leggere, capisco che avranno dei problemi. Ma il problema, come sempre, è loro e non mio. Consiglio loro di chiamare Wolf-Harvey Keytel, quello di Pulp fiction che risolve i problemi».
Che accidenti di vita fa?
«Una bella vita, te lo assicuro. Ora che l’intervista è finita possiamo darci del tu. E la farò ancora meglio dopo che avrò venduto il mio milione di copie. Come il signor Bonaventura. Tu lo leggevi il Corriere dei Piccoli?».
Mi piaceva Superbone sul Monello.
«Eccomi».