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 2010  ottobre 09 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 11 OTTOBRE 2010

Con i quattro alpini della Julia morti sabato nella valle del Gulistan, sono 34 i militari italiani caduti in Afghanistan dall’inizio della missione Isaf, nel 2004. Nove vittime nel 2009, quest’anno si è già raggiunta quota dodici. [1] Il ministro della Difesa Ignazio La Russa: «Queste azioni terroristiche tendono a colpire le opinioni pubbliche straniere più che i meccanismi in campo». Il nostro contingente non ha ancora raggiunto le dimensioni massime previste per il 2010, 3.970 militari sul posto entro dicembre. [2]

A poche ore dalla morte dell’incursore Alessandro Romani, lo scorso 17 settembre, a Roma giunse un’ulteriore richiesta di impegno nella missione militare recapitata personalmente da Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. Antonella Rampino: «Anche guardando “l’orizzonte del disimpegno”, quando ci sarà il ritiro pur senza abbandonare l’Afghanistan a se stesso, occorre accelerare la formazione di polizia ed esercito afghani. Insomma, bisogna muoversi adesso per formare gli addestratori, ne occorrono altri 1.500. E nonostante l’Italia ne fornisca già quasi un terzo, occorre incrementare la nostra presenza». [3]

L’Afghanistan rischia di diventare il Vietnam italiano, come sostiene il presidente nazionale dei Verdi Angelo Bonelli? Il super-esperto di sicurezza Andrea Nativi: «Siamo in una situazione di massimo sforzo che non rallegra i nostri nemici, ma se ci affrontano con ordigni esplosivi vuol dire che non hanno altro». E poi: «Oggi i taleban non hanno la capacità militare per cacciar via la Nato e rovesciare il governo di Kabul. La questione, casomai, riguarda noi: abbiamo le palle per sostenere un conflitto di lunga durata? In Italia siamo sempre troppo emotivi, la pur tragica scomparsa di un militare fa parte del gioco e va letta nel contesto di una operazione di peace enforcing che richiede tempo, molto tempo». [4]

Ogni volta che ci sono vittime italiane, il cordoglio è seguito dalla domanda se abbia ancora senso versare sangue italiano in quelle terre lontane, se la guerra non sia ormai persa, se non sarebbe più saggio per i nostri soldati fare i bagagli e tornare a casa. Franco Venturini: «A questi pur leciti interrogativi torniamo a rispondere che l’Italia non deve, se vuole tutelare i suoi interessi, anticipare per conto proprio quella exit strategy che già tutti i Paesi della Nato - a cominciare dall’America - hanno inserito tra i loro obiettivi strategici. Ricapitoliamo. La guerra in Afghanistan (perché tale è, ed è ipocrita anche se costituzionalmente prudente negarlo) nasce come risposta al devastante attacco terroristico delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, un attacco che gli uomini di Al Qaeda allora ospiti dei Talebani, a beneficio dei dubbiosi, hanno ripetutamente rivendicato». [5]

Quello in Afghanistan è «un conflitto “idealmente giusto”, ma tutto da ripensare. Perché, così com’è, appare senza sbocco» (Bernardo Valli). [6] L’ex capo di stato maggiore del Comando Nato in Sud Europa Fabio Mini: «Le vite dei soldati morti hanno senso alla luce di ciò che si dovrebbe realizzare, ma alla luce di quanto realizzato sono sangue sprecato. La strategia bellica ha prodotto solo risultati mediatici, bisogna passare a quella economica e civile». [7] Lucio Caracciolo: «Suona sempre più patetica la tesi per cui la nostra presenza in Afghanistan serva a impedire che vi si installino i terroristi. Come confermano in abbondanza i documenti dell’intelligence Usa, non solo la campagna ha rafforzato i Taliban, ma ha contribuito a destabilizzare il Pakistan. Più che nelle caverne o nelle gole afgane, è nel vespaio pachistano che bisognerà scavare, se davvero intendiamo limitare il rischio, mai sradicabile, di un nuovo 11 settembre. Rischio aumentato, non diminuito, dalla guerra in corso». [8]

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha capito che il Paese non può essere governato dall’esterno come un qualsiasi protettorato. Sergio Romano: «E sa che i talebani rappresentano una forza reale, composta da persone che credono di morire per una causa giusta e possono contare in alcune regioni su un forte sostegno tribale. Bisogna quindi, prima o dopo, coinvolgerli in un negoziato di pace che ristabilisca l’unità nazionale e consenta all’America, nel momento in cui le sue truppe potranno abbandonare il Paese (nel 2011?), di non lasciare dietro di sé il caos. Ma occorre, prima di avviare il negoziato, vincere qualche battaglia, pacificare qualche provincia, dimostrare al nemico che la pace può essere più conveniente della guerra. E occorre altresì creare le istituzioni di un Paese che possa governarsi da solo. Sedersi al tavolo del negoziato in condizioni di debolezza sarebbe, oltre che inutile, pericoloso». [9]

Il 18 settembre gli afghani hanno votato per il rinnovo del parlamento (risultati attesi per il 30 ottobre). [10] Antonio Carlucci: «Le elezioni presidenziali dell’anno scorso furono presentate come il momento chiave per il ritorno del Paese alla normalità e certamente non lo sono state visti gli avvenimenti degli ultimi mesi». Staffan de Mistura, rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan: «Il voto consente agli afghani di passare dai bulletts ai ballotts, dalle pallottole al confronto con il voto e alla politica, togliendo ai talebani l’arma propagandistica che vorrebbe dimostrare che la democrazia non è fatta per l’Afghanistan. Poi, offre l’opportunità di dimostrare che dopo l’esperienza delle presidenziali il paese è capace di darsi delle regole e di rispettarle. Infine, le elezioni parlamentari sono la chiave per cominciare davvero il dialogo di riconciliazione». [11]

Giovedì si è aperto ufficialmente a Kabul il tavolo del negoziato tra il governo afgano e i talebani. L’annuncio è arrivato dal presidente Hamid Karzai dopo le indiscrezioni pubblicate mercoledì dalla stampa americana. [12] Robert Gibbs, portavoce di Obama: «L’Amministrazione ha per lungo tempo sostenuto uno sforzo di riconciliazione, non lo possiamo fare noi con i Taliban, lo deve fare Karzai». [13] Maurizio Molinari: «Lo scenario di guerra nell’Afpak - come l’amministrazione Obama ha rinominato l’area afghano-pachistana - vede dunque Washington sostenere Karzai nel dialogo con i taleban di Quetta mentre preme su Zardari al fine di attaccare i taleban di Haqqani». [14]

I negoziati (avviati lo scorso giugno a Dubai) coinvolgono soltanto i talebani della Shura di Quetta. L’organizzazione, guidata dal mullah Omar, avrebbe preso atto che i gruppi più radicali (come quello che fa capo a Jalaluddin Haqqani, il più vicino ad Al Qaeda) starebbero prendendo il sopravvento, e intenderebbe negoziare l’ingresso di alcuni leader nel governo Karzai. Gli Usa, da sempre contrari a una trattativa diretta, avrebbero modificato il loro atteggiamento convinti ormai che il conflitto non possa essere risolto solo militarmente. Flores d’Arcais: «La trattativa è difficile anche perché ci sono alcuni punti su cui le due parti non sono disposte a transigere. Per la Casa Bianca Karzai deve ottenere come prima cosa la fine di ogni violenza e la fine di ogni rapporto con i gruppi di Al Qaeda ancora presenti in Afghanistan. Il mullah Omar pone come precondizione un’agenda con le date del ritiro della Nato, il rilascio di tutti i prigionieri taliban e vuole anche che il suo gruppo venga eliminato dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche». [8]

La Cia e la Defense Intelligence Service non nascondono i loro dubbi sulla possibilità di sopravvivere di Karzai nel caso gli americani e i loro alleati dovessero ritirarsi. Valli: «Il regime avrebbe scarse probabilità di reggere senza il sostegno occidentale. Il loro scetticismo si scontra con il relativo ottimismo del generale David Petraeus, succeduto in giugno al generale Stanley A. McChristal, silurato da Barack Obama. Petraeus viene dall’Iraq, dove è riuscito a ridurre l’ insurrezione armata, recuperando i sunniti un tempo fedeli a Saddam Hussein e insofferenti nei confronti dei loro provvisori alleati, gli integralisti arrivati da tutti gli angoli del mondo arabo. Ma l’Afghanistan non è l’Iraq». [7]

I talebani si addestrano e si curano le ferite nelle vicine zone tribali del Pakistan e poi ritornano in patria più aggressivi di prima. Valli: «Il generale Petraeus sta ricevendo robusti rinforzi. Arrivano soldati ritirati dall’Iraq. Quasi tutti quelli concessi, dopo molte esitazioni da Barack Obama, sono ormai sul posto. Petraeus è quindi in grado di lanciare numerose operazioni. E secondo la sua diagnosi i Taliban risultano attivi perché sono costretti a reagire agli attacchi che lui, Petraeus, promuove. Lui li stana. Li obbliga a uscire allo scoperto. Ma questo non è il giudizio dell’intelligence. Per la quale i Taliban controllano sempre più il territorio. Arrivano alle porte di Kabul». [7]

Il rischio è che la comunità internazionale decida nel giro di pochissimo tempo che è giunta l’ora di andare via. De Mistura: «Dobbiamo continuamente ricordare questa ipotesi agli afghani e alle potenze regionali, spiegando loro che c’è sempre un momento in cui la comunità internazionale può dire adesso basta. Io ho già vissuto un’esperienza simile in Somalia nel 1992. Gli americani e gli altri alleati se ne andarono dalla sera alla mattina. Io stavo ancora allestendo i container per il nostro centro e mi ritrovai da solo». C’è la possibilità che avvenga lo stesso in Afghanistan? «Un rischio di questo tipo ci sarà a partire dall’estate del 2011 se non sarà stata ancora trovata una formula politica accettabile per il paese». [11]

Il ritiro Usa dovrebbe cominciare nel luglio 2011. La partenza delle truppe occidentali farebbe felici le potenze regionali. Enrico Di Maio: «L’Iran che ha a pochi chilometri una base Usa e potrebbe allentare la pressione internazionale sul nucleare; la Russia che mal sopporta l’espansionismo Nato e che meglio di chiunque altro conosce - e potrebbe sfruttare - le ricchezze del sottosuolo; l’India che aspira a un ruolo egemonico in Asia meridionale; la Cina che aspira a un analogo ruolo in Asia e che più di ogni altro può influenzare il Pakistan. Il Pakistan resta il major player. Su di lui dovranno premere non solo i Paesi vicini, ma soprattutto gli Usa (potenza militare), l’Unione Europea (potenza economica, il grande pagatore), la Cina (potenza protettrice). Il Pakistan ha in mano le carte per convincere i Talebani a trattare, ma non deve approfittarne per ricevere immensi aiuti militari ed economici dando in cambio poco o nulla». [15]

Note: [1] repubblica.it 9/10; [2] Maurizio Caprara, Corriere della Sera 29/7; [3] Antonella Rampino, La Stampa 18/9; [4] Francesca Paci, La Stampa 29/7; [5] Franco Venturini, Corriere della Sera 29/7; [6] Bernardo Valli, la Repubblica 18/9; [7] Francesca Paci, La Stampa 29/7; [8] Lucio Caracciolo, la Repubblica 29/7; [9] Sergio Romano, Corriere della Sera 19/9; [10] Davide Frattini, Corriere della Sera 19/9; [11] Antonio Carlucci, L’espresso 2/9; [12] la Repubblica 8/10; [13] Alberto Flores d’Arcais, la Repubblica 8/10; [14] Maurizio Molinari, La Stampa 7/10; [15] Enrico Di Maio, Corriere della Sera 22/9.