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 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

INTERVISTA A AGATHA RUIZ DE LA PRADA

Per capire chi sia Agatha Ruiz de la Prada non serve una biografia ragionata ma basta una foto, scattata nel 2004 al matrimonio del principe delle Asturie Felipe con Letizia Ortiz. Eccola lì Agatha, stilista, artista, salottista, ecologista, sempiterna chica della movida: è vestita di rosso e di giallo che poi sono i colori nazionali spagnoli, ha una gamba ciliegia e l’altra color curry, un gran cuore viola, un baschetto che chissà come fa a star su. Accanto, in tight, evidentemente divertito dal contrasto, c’è il suo compagno di vita Pedro J. Ramírez, fondatore e direttore del quotidiano El Mundo. Insieme, la power couple simbolo da 25 anni della nuova Spagna democratica: l’uomo che negli Anni Novanta attaccò i governi socialisti di Felipe González accusandoli di connivenze nella «guerra sporca» degli squadroni della morte contro l’Eta e la spiritosa signora, marchesa di Castelldosrius e figlia del maggiore collezionista spagnolo di arte contemporanea, che ha messo il colore al centro della propria attività imprenditoriale; e che, passando dagli abiti all’arredamento, dalla cartoleria alla cosmetica, è riuscita, come dice lei, ad «agatizzare» il Paese. Ora che la Spagna è stretta dalla crisi e da una disoccupazione al 20 per cento, e che il progetto di Zapatero incanta sempre meno gli elettori, è proprio ad Agatha - di passaggio in Italia per un incontro svoltosi ieri alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino - che vien la tentazione di chiedere dove siano andati a finire i sogni pop e almodovariani della Spagna postfranchista.
Signora Ruiz de la Prada, ma lei che farà se la Spagna tornerà a vestirsi di nero?
«Guardi che quella che stiamo finendo di attraversare è stata solo una lunga parentesi: una bolla di vitalità e di iperarricchimento per un Paese che è sempre stato povero e che povero tornerà a essere. In questo senso, non credo che ci saranno traumi. Penso a mia nonna...».
Che era una donna di enorme ricchezza.
«Già, ma che in vita sua non ha mai bevuto un bicchiere di champagne, né progettato un weekend, né sprecato un soldo. La parola d’ordine in casa nostra è sempre stata au-ste-ri-tà. E così si è sempre comportato tutto il Paese, nelle proprie diverse stratificazioni sociali. Quanto all’atmosfera, la Spagna della mia infanzia era a lutto come un film di Buñuel, e non sto parlando soltanto dei villaggi di campagna. Le signore borghesi di Madrid che restavano vedove, in gramaglie ci rimanevano fino alla fine. Anche per quarant’anni».
E quando arrivò il risveglio che cosa accadde?
«Nessuno può immaginarsi quanto sia stato entusiasmante. Il bello della movida è stato innanzitutto la mescla, le opportunità che s’intrecciavano facili e spontanee. Ti presentavano uno che era fotografo, e dopo dieci minuti era lì che ti diceva: ma tu non è che sai anche cantare? Oppure: non è che ti piacerebbe fare del cinema? Perché, sai, avrei anche altri progetti».
Viene in mente quel vecchio film del suo amico Almodóvar, Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio.
«Il suo migliore, secondo me. Con Alaska, la cantante punk-rock, che allora doveva avere forse 14 anni. E che al di là di ogni apparenza è una vera gentildonna, una che ti manda per lettera bellissimi messaggi forbiti».
Trent’anni fa lei cominciava a lavorare nella moda.
«E il mio primo boss, un certo Pepe Rubio, era un tizio altissimo che girava in short e stivali. Completamente pazzo. Mi domando se a mia figlia oggi potrebbe mai capitare un capo del genere».
Quando si intuì che era finita?
«Nel 1992. Per l’Expo di Valencia e per le Olimpiadi di Barcellona cominciarono a sbarcare troppi giornalisti stranieri. Ci guardavano con una curiosità un filo malsana e tutto cominciò a sembrarci un po’ troppo artificioso. Ma la svolta vera arrivò con l’Aids e con le morti per overdose. Sui personaggi della movida, piano piano, ci apprestammo a mettere delle croci».
Anche l’era di Zapatero sta tramontando, e non è un bel vedere.
«Zapatero è una persona di enorme buona volontà, ma credo che la sua si sia rivelata fondamentalmente un’utopia. In economia il zapaterismo non funziona, punto e basta».
E le sue riforme civili? La legge sui matrimoni gay? Quella sulla fecondazione artificiale?
«Sono provvedimenti arrivati troppo rapidamente. Il Paese ci sta facendo i conti ora, piano piano. Ma queste novità non sono ancora entrate nel costume nazionale».
Come sono messi i coetanei dei suoi figli, Tristan di 23 anni e Olivia di 19?
«Per il momento mi sembrano iperpreparati. Tutti che si laureano, tutti che s’iscrivono ai master, mai che possano arrivare al dunque».
E come stanno invecchiando i babyboomer, quelli che si sarebbero mangiate tutte le opportunità anche per le generazioni a venire?
«Posso rispondere solo per quanto mi riguarda, ma direi bene: lavoro come un mulo e sono sempre in viaggio. Lo sa? La crisi economica ha questo di bello: che non riesci a pensare ad altro. Figurarsi alle rughe».
Quali sono i prodotti che tirano di più in questi frangenti?
«Io firmo di tutto, dai costumi di Carnevale alle pinzette per la depilazione. Ma devo ammettere che vanno un gran bene le porte blindate Agatha Ruiz de la Prada. Me le chiedono sempre di più. Sarà un segno dei tempi?».


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