Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 01 Mercoledì calendario

Piranesi, il romano de Venexia - Ancora fino agli an­n­i Sessanta del No­vecento, Giambat­tista Piranesi fu per la critica italia­na «un artista d’esportazione»

Piranesi, il romano de Venexia - Ancora fino agli an­n­i Sessanta del No­vecento, Giambat­tista Piranesi fu per la critica italia­na «un artista d’esportazione». Era stato adottato fin da subito da ingle­si, francesi e tedeschi, ma in pa­tria gli toccò la sorte tipica de­gli «irregolari» a cui si aggiun­se, come ha scritto Piero Busca­roli in un bell’omaggio poi rac­colto in I luoghi e il tempo (Fo­gola editore), «il pregiudizio accademico che lasciaval’inci­sione quale “arte minore” ai suoi esclusivi cultori; l’opaca notorietà dei troppi fogli, spre­muti dalle esauste lastre per adornare uffici di ministeri, che trasmetteva una burocrati­ca pulvurulenza»... Veneziano trapiantato a Roma e dall’idea di Roma pervaso e poi ferito a morte, di quel Settecento che lo aveva visto venire al mondo nella sua opera quasi non v’è traccia, eppure quella sua «mo­dernità » che tanto affascinerà i romantici del secolo successi­vo, affonda in una classicità ro­mana fedele e insieme reinven­tata. Dalla prima importante mo­s­tra italiana che lo celebrò a To­rino nel 1961, il tempo ha reso giustizia a questo grande arti­sta, tant’è che l’aggettivo «pira­nesiano » è entrato nel lessico, indice di bizzarria visionaria, folle geometria, e non sorpren­de che Venezia gli dedichi ora un’esposizione proteiforme: «Le arti di Piranesi. Architetto, incisore, antiquario, vedutista e designer» (Isola di San Gior­gio Maggiore, sino al 21 novem­bre). Ideata da Michele De Luc­chi, prodotta dalla Fondazio­ne Cini insieme con Factum Ar­te, la rassegna alterna 300 stam­pe originali a una serie di crea­zioni moderne capaci di ripro­porre il linguaggio e lo stile pi­ranesiani: proiezione in 3D del­­le Carceri d’Invenzione , restitu­z­ione tridimensionale in mate­riali preziosi di alcune sue crea­zioni tratte dalla serie delle D i­verse maniere di adornare i ca­mini , ricreazione di alcuni pez­zi provenienti dalla sua raccol­ta di antichità destinata al mer­cato antiquario. Trentatré foto inedite di Gabriele Basilico, scattate negli anni ’60,affianca­no infine le incisioni dedicate a Roma e a Paestum, una sorta di mostra nella mostra. Stando alle scarne notizie biografiche conosciute, Pira­nesi fu un uomo collerico, svel­to di coltello e di bastone e for­se si macchiò di un delitto, l’uc­cisione del cavalier Vasi, suo maestro d’incisione...Nel cele­brarlo da morto, l’ Antologia ro­mana , giornale di arti, scienze e lettere, scrisse che «chi potes­se raccontare con libertà e de­cenza la vita tumultuosa di Gianbattista Piranesi farebbe un libro non meno gustoso né meno ghiotto di quello che di se stesso scrisse il famoso Ben­venuto Cellini». La «scelleratezza» che gli venne attribuita stava, forse, più nella testa che nelle mani, ovvero in quel coacervo di idee e di teorie che lo videro farsi portatore di un’idea dell’anti­chità che da Oriente era giunta a Roma, una civiltà che a suo giudizio era più debitrice del­l’Egitto di quanto non lo fosse della Grecia. A ciò si aggiunse una rilettura del cattolicesimo dove gli elementi e i simboli dei Crociati e dei Templari ri­mandavano a una nuova Geru­salemme sul Tevere, una filia­zione che strideva con l’orto­dossia pontificia del suo tem­po. Di tutto questo la summa visiva è la chiesa di Santa Ma­ria del Priorato all’Aventino, sua unica opera di architetto. Come tutti gli autodidatti, Pi­ranesi formò la propria cultura in modo eclettico e disordina­to, ma al di là delle componen­­ti, diciamo così, esoteriche del­la sua arte, vale la pena sottoli­neare quella «passione roma­na » che ancora ventenne gli aveva fatto scrivere su un dise­gno raffigurante un Vestibolo d’antico tempio l’iscrizione «Imperator Joanes Btta Pirane­si sepulcrum erexit », quasi pre­figurandosi, ha scritto ancora Buscaroli, «il sacerdote solita­rio di una religione deserta»; e che morente lo aveva visto chiedere ai familiari un esem­plare di Tito Livio dicendo: «Non ho fede che in questo». E da stoico civis romanus era sta­ta del resto la sua agonia: «Il ri­poso è indegno di un cittadino di Roma; vediamo ancora i miei modelli, i miei disegni, i miei rami». Che cosa fosse Roma a metà Settecento, la Roma dei Papi che si allungava sulla Roma dei Cesari, è qualcosa che solo la penna di un grande scrittore può descrivere e comprende­re. Il fasto e la miseria, la natu­ra allo stato brado e gli esteti del Grand Tour che vi si aggira­vano come fosse un museo a cielo aperto, la miseria del po­polino e il senso sacrale di ab­bandono, le carrozze dorate e le strade fangose, le colonne, i muri, gli archi che nel cielo az­zurro evocavano immagini di aquile e si vedevano venire in­contro stormi di corvi... Era co­me l’immenso cimitero di una civiltà scomparsa e che mai sa­rebbe tornata, il sole oscurato che mai più avrebbe brillato, la nostalgia che prende tutti i ma­lati di grandezza, consapevoli che nulla potrà essere come è stato eppure impegnati a dar corpo alle proprie fantasie, a il­ludersi che almeno nella loro mente il prodigio possa di nuo­vo compiersi. Architetto edificatore di una sola opera, a 44 anni suonati, dopo che ormai da un venten­nio era nella capitale, già nella sua prima raccolta di Architet­tura e prospettive Piranesi ha ben chiaro qual è il suo desti­no, un destino in cui incidere vale quanto edificare. «Mosso da quel nobile disio di ammira­re e­d apprendere da queste au­guste reliquie » - «ruine parlan­ti » dalla «esattissima perfezio­ne » - prende atto che «ned es­sendo sperabile a un Architet­to di questi tempi di poterne ef­fettivamente eseguire alcune, altro partito non veggo restare in me che spiegare con disegni le proprie idee». Il temperamento fantastico fa il resto e all’esattezza della riproduzione gli fa accostare la «lingua babelica», l’espressio­ne è di Manfredo Tafuri, con cui reinventa, paragona, acco­sta. Incide le rovine di un so­gno come un medico legale al lavoro sul tavolo anatomico: seziona, separa, allinea, si di­verte a riordinare. L’invenzio­ne delle Carceri è, sotto questo profilo, esemplare, e nelle Con­fessioni di un oppiomane di De Quincey c’è una loro remini­scenza nel nome del delirio, «finché le scale non finite e il disperato Piranesi si perdono entrambi nelle tenebre supe­riori dell’enorme ambiente». Si chiederà Mario Praz: «Co­me poté Roma esercitare un fa­scino così, diciam pure, esoti­co - e quindi romantico - su un veneziano educato alla serena scuola del Palladio? Forse per­ché nel crudo sole di Roma le pietre vivono, per chi sappia ve­derle, di tale intensità da parer quasi allucinate?». Piranesi amava farsi calare lungo le co­lonne per disegnare le storie scolpite in bassorilievo, il rac­conto delle glorie di un impe­ro. Tra quei resti della Roma pa­gana si affacciavano per la pri­ma volta misteri egiziani ed etruschi, vestigia cristiane... Nella sua bottega d’incisore il passato tornava a vivere e quel che resta sono le più stupefa­centi rovine che il mondo ab­bia mai visto.