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 2010  agosto 31 Martedì calendario

La casta degli storici che non insegna nulla - Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’au­tocritica onesta e serena

La casta degli storici che non insegna nulla - Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’au­tocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di rimettere in discus­sione le vostre pompose cer­tezze e il vostro sussiego da baroni universitari, ma tenta­te uno sforzo. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericolati, poco documenta­ti e rozzi nelle accuse, nostal­gici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’uni­versità, se nei convegni e ne­gli interventi su riviste e gior­nali, voi aveste scritto, studia­to e documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E invece quasi nessu­no storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di vaglia ha mai senti­to il dovere e la curiosità di in­dagare su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficien­za. Ho letto e ascoltato con quanto fastidio - e cito gli esempi migliori - Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fio­ren­te pubblicistica sul brigan­taggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei Savo­ia. Ne parlano con sufficien­za e scherno, quasi fossero ac­c­essi di follia o di rozza propa­ganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antiri­sorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classi­fiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti antirisorgi­mentali di scrivere sciocchez­ze e poi dice che erano cose risapute; ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamen­te o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le impre­cisioni altrui, ridurle ad ame­nità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor Ga­lasso, viene titolato sul Corrie­re della Sera «Nel sud preuni­tario », mentre il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all’Italia postunitaria. Par condicio delle amenità. Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici borio­si, che detengono il monopo­lio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi siete mai ci­mentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimet­tere in discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre? Dete­state i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono sco­perte inedite. Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri inter­venti sui giornali, le pagine in­fami che seguono alla rivolu­zione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzio­nari. Celebrate i collaborazio­nisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideo­logica anche la vostra omer­tà? O ancor peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia di lettori: ma perché voi, temen­do l’interdizione dalla casta, non avete avuto il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il triangolo rosso e gli eccidi co­munisti. Così fu pure per le foibe. Poi con disprezzo acca­demico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che coesione naziona­le avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri negli armadi? Sul Risorgimento non ave­te il coraggio di rispondere a quelle domande e così contri­buite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia co­me uno stanco rituale, estra­neo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleo­grafie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non parteci­pa, è assente, è re­frattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se conti­nuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni? Come forse sape­te, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Ita­lia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difen­derla. Sono con­vinto che il proces­so unitario fosse necessario, che molti patrioti fos­sero ardenti e me­ritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coro­namento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geogra­fia, di una cultura e di una lingua an­tiche. Ma per ren­dere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscu­re e pure infami, non possiamo ne­gare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che det­te una mano ai garibaldini co­me poi agli sbarchi america­ni. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo al­fabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di ri­spetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integra­zione dei meridionali nello Stato, il loro grande contribu­to alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze del­l’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e milita­re. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di sto­ria per qualche decennio fina­le di parassitismo. Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’al­tra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di colo­ro che subirono l’Unità. Per­ché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costrui­ta.