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 2010  agosto 31 Martedì calendario

La morte senza lacrime del baby centauro nel mondo dei campioni - Ci sono giorni in cui vie­ne spontaneo chiedersi che cosa siamo diventati, o che cosa stiamo diventando

La morte senza lacrime del baby centauro nel mondo dei campioni - Ci sono giorni in cui vie­ne spontaneo chiedersi che cosa siamo diventati, o che cosa stiamo diventando. È uno di quei giorni. Basta ve­dere come televisioni e gior­nali, compreso il nostro, han­no trattato la morte a India­napolis di un pilota-bambi­no, 13 anni sbriciolati in mo­to contro il muro: poco e ma­­le, tanto per non avere il bu­co. Per dire «l’avevamo», per salvare la forma e la reputa­zione. Ma passione e com­passione, commozione e pe­na, zero. Il timore è che la ca­tegoria abbia affrontato l’ar­gomento a testa bassa, op­pressa dagli spazi angusti, fi­nendo per valutare nel mo­do più orrendo: in fondo non è una gara del MotoGp, non c’entra con Valentino e Sto­ner, praticamente è una noti­zia minore. Più che minore, la notizia è minorenne. Alzi la mano chi, fuori dall’ambiente motori­stico, sa che bambini di 13 an­ni­corrono a Indianapolis pri­ma dei grandi. Certo ci spie­gheranno i tecnici che sono gare di contorno, puro diver­timento, nessuna pretesa. Spiegheranno, ma senza convincere nessuno. Né ma­dre, né padre. Né nonno, né zia. Un bambino di 13 anni che muore su un circuito, in questo caso sul circuito più famoso del mondo, nel vero e proprio santuario dell’altis­sima velocità, resta comun­que avvenimento spavento­so. E anche un po’ indecente, se ancora è possibile ragiona­re in termini puramente umani. Perché sarà pur vero che ormai lo sport svezza pre­sto, che lo sport pretende e misura sempre prima, ma continua a esistere un limite superiore: morire a 13 anni in una gara di velocità, per quanto divertente, resta allu­cinante. Benché precocioni, i 13enni solitamente vanno a sbattere correndo il gran pre­mio della playstation, o caso mai si sbucciano le ginoc­chia cadendo dalla moun­tain- bike. Questa è una cosa enormemente più grande, più assurda, più mostruosa. E in ogni caso sarebbe saggio e salutare ragionarci sopra. Non dico di piangerci, per­ché ormai le lacrime della co­scienza popolare sgorgano soltanto quando Belen la­scia Corona o Al Bano lascia l’«Isola». Ma quanto meno fermarci un attimo per dare il giusto peso. Invece, poche righe ben nascoste. Per il po­vero Peter, che inseguiva il sogno dei grandi in una com­petizione piccola, prima dei Pedrosa e dei Lorenzo, per questo martire in erba del bri­vido assoluto non c’è spazio, non c’è tempo. E che sarà mai, non era il MotoGp. Se non avessimo ormai una sensibilità deforme, po­tremmo eventualmente chie­derci: è più terribile che in pi­sta muoia un pilota profes­sionista o un bambino di 13 anni? La risposta vera sareb­be che risulta molto stupido stilare la classifica della pie­tà. Ma comunque, dovendo fare una classifica, mi pare che la morte di un bambino a Indianapolis sia più choc­cante della morte di un pilo­ta adulto. Qui la regola e la logica sembrano invece ri­baltate: per un Valentino che scivola si montano pagine e servizi di telegiornale, per il pilota-bambino che si sfra­cella c’è l’umiliante offesa di una breve. È normale sia co­sì, è pacifico sia così, tutti fan­no così: Valentino e Stoner interessano al mondo inte­ro, il pilota-bambino non lo conosce nessuno. Se però riuscissimo una volta ad alza­re la testa dalla consuetudi­ne, dovremmo porci il fatidi­co dilemma: è giusto sia co­sì? Come mai, tanto per fare un parallelo inevitabilmente macabro, quando lungo una strada, o su una spiaggia, o in fondo a un dirupo, muore un bambino, la cronaca riserva molto più clamore? Giusta­mente, si può dire che la mor­te di un innocente, a quel­­l’età, commuova e addolori in modo più profondo. Chie­do: perché questo slancio di pietà e di tenerezza, questa equa elargizione del nostro dolore, non vale a Indianapo­lis? E poi c’èdell’altro.Una del­le cose più tristi che si sento­no dire in situazioni simili, con il grande spettacolo fune­stato dal fastidioso acciden­te, è il famoso «the show must go on». E come no: lo spettacolo è talmente impor­tante, che bisogna sgombera­re subito il palcoscenico, li­berando il caloroso pubbli­co dai pensieri più tristi e più cupi. The show must go on, pronti via e vediamo piutto­sto se Valentino ha indovina­to le gomme. Tuttalpiù, alle quattro mammole che stor­cono il naso si può sempre fornire con ciglio umido la suprema spiegazione: «Cor­riamo perché Peter avrebbe voluto così». Nel rispetto di Peter, si rimuove la carcassa di Peter. Da Indianapolis, dai giornali, dalle televisio­ni. Dal nostro sentire più inti­mo. Noi giornalisti però sia­mo i primi a doverci porre qualche domanda. E magari a trovare pure qualche rispo­sta. Troppo facile risponde­re trafelati che «non c’è spa­zio ». Per certe notizie, lo spa­zio va trovato. Lo show può fermarsi, qualche volta.