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 2010  agosto 31 Martedì calendario

Notizie tratte da: Maurizio Torrealta, La trattativa, Bur 2010, pp. 675, 12,90 euro.Bernardo Provenzano da ragazzino prendeva ripetizioni di matematica dal compaesano Vito Ciancimino, futuro sindaco di Palermo, allora studente di ragioneria

Notizie tratte da: Maurizio Torrealta, La trattativa, Bur 2010, pp. 675, 12,90 euro.

Bernardo Provenzano da ragazzino prendeva ripetizioni di matematica dal compaesano Vito Ciancimino, futuro sindaco di Palermo, allora studente di ragioneria.

«Mio padre gli dava del tu e lui gli dava del lei. Mio padre lo chiamava Binno e lui lo chiamava ingegnere» (Massimo Ciancimino spiega i rapporti tra suo padre Vito e Bernardo Provenzano).

«Mio padre, commentando con me, una volta mi disse che quel deficiente di Riina si era messo in testa di potere arrivare, in un momento di grande destabilizzazione, a quello che era già successo negli anni Quaranta in occasione della banda Giuliano e degli scissionisti, quando si arrivò a una specie di amnistia» (Massimo Ciancimino, interrogatorio dell’8 luglio 2009).

Vito Ciancimino dopo l’assassinio di Salvo Lima presagì la morte di altri personaggi: «Sicuramente il prossimo sarà Sebastiano Purpura e a seguire tutti i referenti di questi deficienti». Racconta Massimo Ciancimino: «Diceva: “Tanti hanno puntato su uno che forse era più proficuo perché sicuramente ha dato più potere, ha dato più soldi, ha fatto maggiormente accrescere l’economia, ma che in un momento non ha avuto scrupoli nel fare piazza pulita. La fortuna mia non è essere Vito Ciancimino, alla fine è stata quella di stare un po’ vicino a uno più tranquillo”», cioè Provenzano.

Nel giugno 1992, in aereo nella tratta Roma-Palermo, Massimo Ciancimino fu avvicinato dal capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno che gli chiese di essere presentato a Vito Ciancimino per discutere la «resa dei super latitanti». Dubbioso, l’ex sindaco accettò di incontrarlo insieme al colonnello Mario Mori. Dopo l’incontro, però, era ancora incerto sul da farsi. Fu convinto ad andare avanti dallo stesso Provenzano, che gli disse di «sondare il terreno», e da un amico, uomo dei servizi segreti, che Massimo Ciancimino chiama indifferentemente Carlo o Franco: «Disse a mio padre che la cosa si svolgeva a alti e ben più apprezzabili livelli».

«Sette commissioni antimafia, sette volte ho chiesto di essere ascoltato dalla commissione antimafia… sono citato in migliaia di pagine, non si sono mai degnati neanche di rispondermi e dirmi che mi vogliono ascoltare. Tutto quello che è la documentazione di trentacinque anni di commissione antimafia, non c’è pagina dove non si fa il mio nome; non sono mai stato ascoltato […]. Una commissione politica-mafia che non sente l’unica persona condannata per mafia e politica ha qualcosa di anomalo» (Vito Ciancimino al figlio Massimo, negli anni 1999-2000).

La trattativa tra mafia e Stato condotta tramite Vito Ciancimino s’interruppe ai primi di luglio 1992, quando l’ex sindaco ricevette il “papello”, cioè il foglio con le richieste della mafia. Massimo Ciancimino: «Leggendo questo foglio di carta, pronunciò la frase, mi scuso… “Sono le solite… testa di minchia”».

Il papello, consegnato da Antonino Cinà, in busta chiusa, a Massimo Ciancimino, nelle vicinanze del bar Caflish di Palermo: «Non era mio compito aprire le buste datemi dal Cinà» (verbale del 29 ottobre 2009).

Massimo Ciancimino non sopporta che il documento con le richieste di Cosa Nostra sia chiamato “papello”, parola usata per la prima volta da Giovanni Brusca: «L’ha detto un personaggio che mi voleva ammazzare, l’ha etichettato papello, perché non scordiamoci che Brusca era venuto a Roma per ammazzarmi» (verbale del 29 ottobre 2009).

Il papello, giudicato «impresentabile» da Vito Ciancimino. 1) Revisione sentenza maxiprocesso del gennaio 1992; 2) Annullamento decreto legge 41 bis (che estendeva il carcere duro ai reati di criminalità organizzata); 3) Revisione legge Rognoni-Latorre (approvata nel 1982, introduceva il reato di associazione mafiosa – 416 bis – e la confisca dei beni ai mafiosi); 4) Riforma legge pentiti; 5) Riconoscimento benefici ai dissociati Brigate rosse per condannati di mafia (in pratica Cosa Nostra voleva che venissero applicate anche a loro le misure, approvate nel 1987, a favore di chi, uscito dalle organizzazione terroristiche, ammetteva le attività svolte e ripudiava la violenza: sconti di pena, commutazione dell’ergastolo a trent’anni ecc. Così facendo, i mafiosi avrebbero goduto di trattamenti privilegiati senza obbligo di collaborazione, come invece prevede la legge sui pentiti); 6) Arresti domiciliari dopo i settant’anni di età; 7) Chiusura supercarceri; 8) Carcerazioni vicino le case dei familiari (non attuabile in regime di 41 bis); 9) Niente censura posta familiari (come la precedente); 10) Misure prevenzione sequestro non fattibile (contro le misure di prevenzione di carattere patrimoniale); 11) Arresto solo fragranza (sic) di reato; 12) Levare tasse carburanti come Aosta. In fondo all’elenco delle richieste, la scritta: «Consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros».

Il “contropapello”, elaborato da Vito Ciancimino, per rendere accettabili le proposte di Cosa Nostra. Prevedeva la modifica della legge 416 bis che definisce il reato di associazione mafiosa, propone riforme alla giustizia, l’abolizione del monopolio sui tabacchi e la creazione di un Partito del Sud, capace di farsi carico di queste istanze. Massimo Ciancimino: «Mio padre diceva che non si poteva presentare una richiesta, levare tasse dai carburanti o altre, se non era avanzata da un partito…» (verbale 29 ottobre 2009).

A detta di Massimo Ciancimino, erano a conoscenza della trattativa il ministro Nicola Mancino e l’ex ministro Virginio Rognoni. Non sa se anche il Guardasigilli Claudio Martelli ne fosse a conoscenza.

Dopo l’attentato a Paolo Borsellino, il 19 luglio 1992, cambiò lo scopo della trattativa: non più la resa dei superlatitanti ma la cattura di Totò Riina. Per questo motivo Vito Ciancimino fece fare al figlio delle copie di mappe topografiche di alcune aree di Palermo e poi le fece consegnare a Provenzano, che le restituì con segni in corrispondenza della residenza di Riina.

Massimo Ciancimino: «Mio padre dall’omicidio Borsellino avvalora la sua tesi, dice: con questa gente non si deve trattare; il peggiore errore che è stato fatto in tutta ’sta storia è stato chiedere […] di aprire una trattativa in un momento in cui la mafia dimostrava il più alto potere a livello bellico, ma in un momento in cui gli mancava il sostegno del consenso sociale. Per assurdo, diceva mio padre, in quel momento bisognava dare il colpo finale e per assurdo mi chiedono di trattare» (verbale del 29 ottobre 2009).

Nel dicembre 1992 Vito Ciancimino fu arrestato, a gennaio la squadra speciale dei Ros, guidata dal capitano Ultimo (Sergio De Caprio) catturò Totò Riina, latitante dal 1969. La casa del boss non fu perquisita che quindici giorni dopo: secondo Vito Ciancimino ciò era stato fatto di proposito per dare il tempo di portare via tutti i documenti della trattativa, compresa una copia del papello.

Dopo l’arresto, Vito Ciancimino si convinse di essere stato usato e poi scavalcato nelle trattative. Massimo Ciancimino: «È stato oggetto della trattativa, come si definiva poi».
Pm: «Vittima della trattativa, diciamo».
Massimo Ciancimino: «Agnello sacrificale… Vendo Riina, mi arrestano, chi mi sostituisce continua a dialogare col Provenzano e poi va alla fase della nascita di questo partito, poi come si chiama non mi interessa»
Pm: «È…?»
Massimo Ciancimino: «È il senatore Marcello Dell’Utri» (verbale 8 febbraio 2010).

I rapporti di Provenzano e Dell’Utri: «Molto stretti. Io so che si conoscevano, c’era rapporto diretto, tant’è che mio padre quando aveva bisogno di avere favori da quel partito che poi era nato, o notizie, bozze di legge, cose, il punto di riferimento era sempre Provenzano. Spesso anche tramite Provenzano mi sono arrivati disegni di legge a casa, manovre su cose dei beni» (Massimo Ciancimino, verbale 8 febbraio 2010).

Scontati sette anni in carcere, Vito Ciancimino fu messo agli arresti domiciliari per reati diversi dall’associazione mafiosa. Aspirando a liberarsi della condanna residua, parlò con Provenzano, che si fece carico delle sue esigenze presso i nuovi referenti politici, come scritto in un pizzino: «Mi è stato detto dal nostro Sen. e dal nuovo Pres. che spingeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza». Massimo Ciancimino spiega che il «Sen.» è Dell’Utri, mentre il «nuovo Pres.» è Totò Cuffaro, appena eletto governatore della Sicilia.

«Avevo incontrato l’onorevole Cuffaro a una festa elettorale a casa dell’onorevole Gunnella proprio nel 2001 […] gli avevano detto che io ero lì, si è venuto a presentare, mi ha baciato, ho detto: ma come mai mi bacia? Poi ho capito perché mi baciava, perché ho visto che baciava tutti […]. Poi ho ricollegato un po’ il soggetto, perché quando accompagnavo mio padre dall’onorevole Lima spesso rimanevamo fuori dalla macchina e c’era Schifani che guidava la macchina a La Loggia e Cuffaro che guidava la macchina a Mannino» (Massimo Ciancimino, deposizione 8 febbraio 2010).

Il 17 febbraio 2005 Massimo Ciancimino, indagato per riciclaggio, è a Parigi per festeggiare la nascita del figlio. La sua villetta di Mondello viene perquisita, ma nessuno chiede di aprire la cassaforte, che è ben visibile. Lì dentro era custodito il “papello”. La cassaforte non è nemmeno citata nel verbale di perquisizione. Il maggiore Antonello Angeli, responsabile dell’operazione, è accusato di «favoreggiamento aggravato».

L’indagine Mafia e appalti, coordinata dal capitano Giuseppe De Donno, consegnata alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1992, studiata da Falcone e Borsellino. Quest’ultimo, secondo il generale Mario Mori, la considerò all’origine della strage di Capaci. Buona parte dell’inchiesta è stata archiviata, la parte restante portò all’arresto di imprenditori vicini a Cosa Nostra (Angelo Siino, Giuseppe Lipari, Filippo Salamone ecc.).

Il detenuto Luigi Ilardo, cugino del boss Piddu Madonia, si accordò con il colonnello Michele Riccio della Dia per fare da infiltrato in Cosa Nostra. Nel 1995 riuscì a fissare un incontro con Provenzano: c’era la possibilità di arrestare il latitante e Riccio ne parlò con il colonnello del Ros, Mario Mori. Riccio per la cattura mise subito a disposizione le attrezzature (dispositivi gps di segnalazione), ma Mori rifiutò preferendo usare mezzi del Ros. Riccio: «Quando gliene chiesi la consegna, mi disse che non erano immediatamente disponibili». Il giorno dell’incontro tra Ilardo e Provenzano, il 31 ottobre 1995, non ci furono arresti e Mori chiese a Riccio di non scrivere relazioni per i magistrati.

«Guardi che molti degli attentati che avete attribuito a noi, nascono da vostre richieste» (l’infiltrato Luigi Ilardo rivolto al colonnello dei Ros, Mario Mori).

Luigi Ilardo non voleva collaborare con i magistrati di Caltanissetta, che riteneva vicini a Cosa Nostra, ma chiedeva di parlare esclusivamente con Gian Carlo Caselli, Procuratore della Repubblica al tribunale di Palermo.

Ai tempi della collaborazione di Ilardo con la Dia, arrivarono lettere anonime alla Procura di Caltanissetta secondo cui l’infiltrato aveva ripreso la sua attività di delinquente in Cosa Nostra. Riccio: «I colleghi commentavano: “Vedrai che te lo arrestano”».

«In quel periodo, nel riferire ai colleghi gli spunti informativi che Ilardo mi andava fornendo per la cattura di Provenzano, mi rapportavo costantemente anche al capitano De Caprio che a sua volta conduceva in territorio palermitano attività di ricerca al latitante. I nostri superiori non hanno mai attivato nessun tipo di coordinamento tra l’attività mia e quella di De Caprio. Quest’ultimo, a sua volta, mi diceva che per la cattura di Provenzano non veniva messo dai nostri superiori nella condizione di lavorare».

Dalla Procura di Caltanissetta trapelò la notizia che Ilardo era un collaboratore di giustizia. Il 10 maggio 1996 Ilardo fu ucciso da Cosa Nostra.

Mario Mori, nel frattempo diventato generale, è attualmente sotto processo al tribunale di Palermo per favoreggiamento alla mafia a causa della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995.

Antonino Giuffrè (Caccamo, luglio 1945), nipote del boss di Filadelfia John Stanfa e vicino alla famiglia newyorkese dei Gambino. Ha studiato ed è considerato un esperto di agricoltura nei ranghi di Cosa Nostra. Entrò a far parte dell’organizzazione nel 1980, al fianco di Giuseppe Intile. Quando questi fu arrestato, Giuffrè si legò a Diego Guzzino: arrestato anche questo, fu designato per curare i rapporti tra Riina e Provenzano, diventando reggente del mandamento di Caccamo, nel 1987. Frequentò Michele Greco, detto il Papa, ma è soprattutto stato legato a Bernardo Provenzano, specie dopo la cattura di Riina. Fu arrestato il 16 aprile 2002, in un ovile vicino Roccapalumba (Palermo).

«All’interno di Cosa Nostra ci siamo fatti grandi risate quando abbiamo letto nei giornali che Calvi commise suicidio. I problemi di Cosa Nostra si risolvono in un modo solo: con l’eliminazione» (Antonino Giuffrè).

«Con l’omicidio di Salvo Lima si è chiuso un rapporto che non era ritenuto più affidabile, perché all’orizzonte se ne prospettava un altro più affidabile. Si chiude un capitolo e se ne comincia ad aprire un altro» (il pentito Antonino Giuffrè).

Dopo l’omicidio Lima, dice Giuffrè, per Cosa Nostra c’è stato un «periodo di travaglio»: «C’erano diversi motivi di insoddisfazione. Insoddisfazione nel campo imprenditoriale, insoddisfazione nel campo processuale, perché per la prima volta era stato fatto un maxiprocesso e le cose erano andate male […], [oltre alle] cattive figure fatte da quelle persone che guidavano Cosa Nostra e che non erano più in grado di mantenere le promesse che avevano fatto, in modo particolare mi intendo riferire alle promesse di Salvatore Riina e in modo particolare per quanto riguarda i processi, perché diceva sempre che la situazione si doveva risolvere nel migliore dei modi possibile […]. Invece, ci eravamo resi conto che si andava sempre più male».

Ottimismo tra i boss per la formazione politica di cui si comincia ad intravedere la nascita. Giuffré: «La dovevamo appoggiare e incoraggiare perché dava delle ottime garanzie e in modo particolare Salvatore Di Gangi faceva riferimento a una persona che lavorava presso alcune aziende di Berlusconi. Se ricordo bene il nome era Perruti», cioè Massimo Maria Berruti. Ancora Giuffrè: «Si parlava di persone della Fininvest che si stavano interessando per creare questo nuovo movimento politico e in modo particolare un esponente di spicco era il signor Dell’Utri».

Massimo Maria Berruti, del Popolo delle Libertà, più volte parlamentare, fratello di Giuseppe Maria Berruti del Csm. Da capitano della Guardia di Finanza condusse nel 1979 un’ispezione presso la Fininvest e in seguito si recò personalmente da Silvio Berlusconi. In conseguenza di ciò, si aprirono inchieste su tangenti alla Finanza da parte di Fininvest e Berruti fu accusato di favoreggiamento e tentativo di depistaggio delle indagini. Fu condannato a 10 mesi in primo grado, ridotti a 8. Berruti lasciò la Guardia di Finanza, è stato commercialista e consulente per Fininvest (si è occupato di società estere e Milan).

Fu Bernardo Provenzano in persona a rassicurare Giuffrè, Brusca e altri boss sulla bontà del progetto Forza Italia. Giuffrè: «Aveva avuto da altre persone delle garanzie. Ha aggiunto che vi era una buona, buonissima possibilità, che i mali di Cosa Nostra potevano essere curati. Però si doveva smettere con le stragi, con la violenza. Da quel preciso periodo comincia a prendere sempre più corpo l’inabissamento di Cosa Nostra, che si accentua sempre di più dopo l’arresto del Bagarella e del Brusca».

***

«Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra» (Leonardo Messina, 4 dicembre 1992).

Leonardo Messina, figlio di uno zolfataro e di una casalinga, uomo d’onore dal 1980, capodecina del mandamento di Cosa Nostra a San Cataldo, provincia di Caltanissetta. Catturato nel 1992, pentito, le sue rivelazioni hanno portato all’arresto di 80 persone.

«Una delle tante volte in cui mi trovai a conversare con il Miccichè, il Potente e il Monachino, il discorso cadde sull’onorevole Bossi della Lega Nord, che poco tempo prima era andato a Catania. Io, che allora consideravo Bossi un nemico della Sicilia, dissi: “Perché un’altra volta che viene qua non l’ammazziamo?”. Al che Miccichè Borino esclamò: “Ma che sei pazzo? Bossi è giusto”. Il Miccichè spiegò quindi che la Lega Nord, e all’interno di essa non tanto Bossi, che era un “pupo”, quanto il senatore Miglio, era l’espressione di una parte della Democrazia cristiana e della massoneria che faceva capo all’onorevole Andreotti e a Licio Gelli. Il Miccichè spiegò ancora che dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa Nostra, ma in effetti al servizio di Cosa Nostra; e in questo modo noi saremmo divenuti Stato» (Leonardo Messina, interrogatorio 4 febbraio 1993, Procura di Palermo).

8 ottobre 1993: costituzione a Palermo del movimento Sicilia libera su input di Leoluca Bagarella.

Gianmario Ferramonti, ex amministratore delegato della Pontida Fin (società finanziaria della Lega Nord), esponente della Lega fin dal 1991, stretto collaboratore di Gianfranco Miglio, fitte relazioni con esponenti importanti della massoneria italiana e internazionale. Da un’indagine (denominata “Phoney Money”) svolta dalla Procura della Repubblica di Aosta risulta essere stato «socio» di Girolamo Scalesse, in contatto, a sua volta, con la ’ndrangheta. Ferramonti si attribuisce il merito di aver contribuito all’accordo di Forza Italia con An e Lega nelle elezioni del 1994.

Gianfranco Miglio in un’intervista al Giornale del 20 marzo 1999: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ’ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto […] C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».

Nella stessa intervista, Miglio rivela i suoi rapporti con Andreotti, diventati più fitti nel 1992, quando tratta personalmente e segretamente col senatore a vita un appoggio della Lega Nord alla sua candidatura alla presidenza della Repubblica in cambio di una politica favorevole al progetto federalista: «Con Andreotti ci trovammo a trattare di nascosto a Villa Madama, sulle pendici di Monte Mario, davanti a un camino spento».