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 2010  agosto 31 Martedì calendario

IL MINISTRO CHE MANCA DA 119 GIORNI - C´è

una vicenda esemplare che la politica, l´establishment e l´opinione pubblica continuano a sottovalutare. Fotografa la palude nella quale sta sprofondando il governo Berlusconi. Riflette l´irresponsabilità nella quale sta declinando il presidente del Consiglio. Questa vicenda si chiama ministero per lo Sviluppo Economico. Oggi sono 119 giorni. Sabato prossimo saranno 4 mesi esatti. Nell´anno più nero dell´industria italiana, nel cuore di una recessione di cui non si vede l´uscita, a tanto «ammonta» il vuoto di potere in quel dicastero, strategico per la tenuta del Sistema-Paese e per il sostegno delle imprese.
La sede è «vacante» da maggio. Da allora il premier esercita un´impalpabile e insostenibile «supplenza», in attesa di nominare il nuovo ministro. Attesa vana, consumata nel Palazzo tra annunci ambigui, tentativi grotteschi, promesse inevase. Attesa cara, pagata dall´Italia al prezzo di una crisi economica e occupazionale gravissima. Ci si chiede come sia possibile, in una grande democrazia industriale impegnata a fronteggiare la «tempesta perfetta» di questi ultimi due anni.

Eppure succede, nell´Italia berlusconiana di oggi, dove l´intera dimensione della politica economica si esaurisce nella tenda beduina di Gheddafi, nella pacca sulle spalle con Putin, nel verso del «cucù» ad Angela Merkel. Era il 4 maggio scorso, dunque, quando Claudio Scajola si dimise da ministro dello Sviluppo Economico in circostanze avventurose. Sui giornali rimbalzano da giorni i verbali delle procure, dai quali si evince senza ragionevoli dubbi che la «cricca» del G-8 - cioè quel micidiale sistema di potere imperniato intorno ad Anemone, Balducci e la Protezione Civile di Guido Bertolaso - ha pagato al ministro il prestigioso appartamento romano, vista Colosseo, nel quale risiede con la famiglia. In conferenza stampa, di fronte ai cronisti attoniti, l´autodifesa di Scajola è surreale: «Un ministro non può sospettare di abitare una casa pagata in parte da altri... Siccome considero la politica un´arte nobile, con la p maiuscola, per esercitarla bisogna avere le carte in regola e non avere sospetti... Mi devo difendere, e per difendermi non posso fare il ministro come ho fatto in questi due anni...». Quasi un caso di comicità involontaria. Il premier assume invece i toni gravi: «Scajola ha assunto una decisione sofferta e dolorosa, che conferma la sua sensibilità istituzionale e il suo senso dello Stato...». È un testacoda, nel quale il colpevole diventa vittima, il sospettato diventa colui che sospetta. La sera stessa Berlusconi va al Quirinale da Napolitano, e prende l´interim del dicastero. Rassicura il Capo dello Stato: «Presidente, dammi qualche giorno e tornerò da te con il nuovo ministro per il giuramento».
Mai promessa fu più bugiarda. Il presidente del Consiglio ci prova, ma a modo suo. Risultano agli atti almeno tre tentativi. Il primo è un sondaggio telefonico con Luca Cordero di Montezemolo, a metà maggio. Respinto al mittente: il presidente della Ferrari non lascia il suo team, e comunque ha ben altre ambizioni. Il secondo tentativo è di pochi giorni dopo. Il 27 maggio, all´assemblea annuale della Confindustria, il premier lancia un´«opa» su Emma Marcegaglia. Davanti ai duemila delegati confindustriali, sale sul palco e dice: «Volete voi che il nostro presidente di Confindustria affianchi il presidente del Consiglio al ministero dello Sviluppo Economico? Alzi la mano chi dice sì...». In una sala ammutolita, tra lo stupore e l´imbarazzo, cala il gelo. E il premier chiosa la sua gaffe: «Nessuno? Allora non potete lamentarvi di quei poveracci che sono al governo e che hanno ereditato un deficit pubblico che si è moltiplicato per otto...». Il terzo tentativo è di un mese dopo: a metà giugno, al termine di un incontro a Palazzo Chigi con le parti sociali, Gianni Letta «abborda» il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «Silvio mi chiede di dirti se saresti disposto a fare il ministro dello Sviluppo Economico...». La notizia non è il rifiuto di Bonanni. Quanto piuttosto la disinvoltura con la quale un importante incarico di governo, decisivo per gli assetti dell´economia, viene offerto indifferentemente a chiunque: un leader degli industriali o un dirigente sindacale.
Incassati i tre no, Berlusconi tira avanti come nulla fosse. Fa di peggio: non nomina un ministro necessario, ne nomina uno impossibile. Il 24 giugno porta al Quirinale non il successore di Scajola, ma Aldo Brancher, premiato «ad personam» all´Attuazione del federalismo, e nominato ministro solo per sfuggire a un processo penale, come nella migliore tradizione berlusconiana. Intanto crescono le tensioni sociali, e in parallelo le pressioni politiche. Dilagano le crisi della Glaxo, deflagrano le proteste dei minatori nel Sulcis, esplode il conflitto sulla Fiat di Pomigliano. In Parlamento piovono le interrogazioni parlamentari su un interim che, alla luce di quello che sta avvenendo nel Paese, sembra sempre più incomprensibile. Il 22 luglio i capigruppo dell´Idv al Senato, Donadi e Belisario, scrivono al presidente della Repubblica: «Intendiamo, con questa lettera aperta, portare alla Sua attenzione la nostra preoccupazione per questo delicatissimo dicastero, strategico per il rilancio dell´economia italiana...». L´iniziativa coglie nel segno. Il giorno dopo al Quirinale, durante la cerimonia del Ventaglio, Napolitano parla chiaro ai giornalisti, prima della pausa estiva: «L´istituzione governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quella della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico e del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob...». Nel frattempo, infatti, all´urgenza di sostituire Scajola si aggiunge quella di sostituire Lamberto Cardia, che il 28 giugno ha lasciato dopo 13 anni il vertice della Commissione di controllo sulle società e la Borsa. Altra posizione «apicale», che una grande nazione capitalista alle prese con fibrillazioni finanziarie e tracolli di mercato non dovrebbe permettersi di lasciare sguarnita.
L´appello del Capo dello Stato sembra raccolto. Lo stesso giorno, a Milano, al termine di un bilaterale con il presidente russo Putin, Berlusconi in conferenza stampa fa un annuncio impegnativo: «In questo periodo ho fatto qualche cambiamento importante nella struttura del ministero, ma ora posso annunciare che la prossima settimana procederemo alla nomina del nuovo ministro per lo Sviluppo Economico...». La notizia viene accolta da un sospiro di sollievo. Non solo sul Colle, ma anche in Parlamento e tra le parti sociali. Ma il sollievo svanisce presto. Il 4 agosto, nell´ultimo Consiglio dei ministri prima delle ferie, la nomina del nuovo ministro «non compare all´ordine del giorno». Il leader del Pd Bersani tuona: «È una vergogna». Fioccano nuove interrogazioni parlamentari. Trapela l´irritazione del Quirinale. Ma il premier tace. Non ha nulla da dire. Nella maggioranza parla solo Daniela Santanchè, con una frase memorabile: «Berlusconi all´interim sta facendo bene...». Da allora, più nulla. E adesso, alla ripresa di settembre, lo Sviluppo Economico rimane ancora «sede vacante».
Nel metodo, l´interim è un´anomalia per due ragioni. La prima ragione è che Berlusconi ci ha abituato a farne un uso smodato. Accadde il 5 gennaio 2002, quando lo assunse agli Esteri dopo le dimissioni di Renato Ruggiero in polemica sull´Europa. Accadde il 2 luglio 2004, quando lo assunse all´Economia dopo le dimissioni di Giulio Tremonti in seguito agli scontri con An e Udc. Accadde il 10 marzo 2006, quando lo assunse alla Sanità dopo le dimissioni di Francesco Storace travolto dal Laziogate. in totale, 471 giorni di interim in tre legislature. Troppi. La seconda ragione è che anche questo interim amplifica, ancora una volta, l´ennesimo conflitto di interessi di un presidente del Consiglio-proprietario di un impero mediatico che, nella sua veste di «ministro competente», deve decidere l´assegnazione delle frequenze televisive alle quali concorre anche Sky (principale concorrente di Mediaset sulla tv digitale) e deve firmare il contratto di servizio con la Rai (principale concorrente di Mediaset sulla tv generalista).
Nel merito, l´interim è un danno per il Paese. Mentre Berlusconi si occupa d´altro, la recessione non rallenta, semmai morde più a fondo nella carne viva degli italiani. Il premier-ministro non parla delle numerose crisi emerse, da Telecom alla Fiat di Pomigliano e Melfi. E non si occupa delle innumerevoli crisi sommerse. Secondo Movimprese, nel secondo trimestre di quest´anno (e dunque in piena coincidenza con l´interim) le aziende italiane che hanno portato i libri in tribunale per fallimento sono aumentate a 3.505, contro le 2.897 dello stesso periodo del 2009. E secondo un report diffuso dallo stesso dicastero dello Sviluppo Economico a metà agosto, i «tavoli» di crisi aziendale aperti presso il ministero, nei primi otto mesi dell´anno, sono passati da 100 a 170. Chi se ne occupa? «I posti di lavoro a rischio - si legge nel documento - sono circa 200 mila». Chi se ne fa carico? «Su 686 "Sistemi locali di lavoro" mappati a livello nazionale, 113 sono in "elevata crisi", 136 sono in "crisi medio-alta"». Chi li monitorizza? Sono domande senza risposta. L´unica cosa certa è che prima dell´estate (come «Repubblica» ha certificato) è cominciato un silenzioso smembramento del ministero. La manovra 2011 gli ha sottratto 900 milioni di fondi di dotazione. I fondi Ue e Fas sono stati trasferiti al ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto. I circa 800 milioni di fondi per il turismo sono passati direttamente sotto la gestione di Michela Vittoria Brambilla. L´Istituto per la Promozione Industriale è stato soppresso. E il 24 giugno 150 imprenditori che avevano vinto il bando per le agevolazioni previste dal programma «Industria 2015» e non hanno visto un solo euro, hanno scritto una lettera al premier: «In queste condizioni è difficile realizzare gli obiettivi condivisi dal ministero».
Non hanno avuto né soldi né risposte. La poltrona dello Sviluppo Economico è mestamente vuota. Da 119 giorni. Quella della Consob lo è altrettanto, da 64 giorni. Ma non importa. «La nave va», avrebbe detto uno dei più famosi «maestri» del Cavaliere. Giusto pochi mesi prima di sfasciarsi sugli scogli.