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 2010  luglio 24 Sabato calendario

IL CONFLITTO MEDIASET-SKY. MURDOCH, MONOPOLISTA DI COMODO

La politica antitrust italiana rischia di raggiungere la sua soglia dell’ incompetenza proprio laddove sarebbe più importante: nell’ informazione. In questo settore, infatti, la regolazione persegue non solo l’ obiettivo economico della migliore allocazione delle risorse, ma anche l’ ancor più rilevante obiettivo democratico del pluralismo politico e culturale. Ebbene, anziché avvicinarle, queste due finalità le stiamo allontanando. Basti vedere le opposte conclusioni alle quali, sul fronte caldo della televisione, sono arrivate la Commissione Ue e l’ Autorità di garanzia delle comunicazioni. Secondo l’ Unione Europea, l’ intreccio delle piattaforme tecnologiche - analogico, digitale terrestre, satellite, Iptv - e delle fonti di ricavo - canoni, pubblicità, abbonamenti, trading di contenuti - hanno ormai cambiato il mercato televisivo. Perciò la Ue apre le porte del digitale terrestre a Sky con un anno di anticipo sul previsto, in tempo cioè per consentirle di partecipare alle gare per i multiplex, in gran parte già assegnati a Rai, Mediaset e Telecom Italia. Tener fermo il divieto fino al 2012 escluderebbe, di fatto, l’ emittente della News Corporation da questa tecnologia per anni e anni, limitando la concorrenza. L’ Agcom, invece, tiene distinte la tv generalista da quella a pagamento. Lo fa nella definizione dei 5 mercati rilevanti della comunicazione ai fini del pluralismo, gli altri essendo la radio, i quotidiani e i periodici. E la questione non è burocratica, perché la legge impone il superamento delle eventuali posizioni dominanti e non si limita, come accade negli altri settori, a colpire solo gli eventuali abusi del dominante. Entrambe le decisioni, va detto, non sono state unanimi, ma, mentre a Bruxelles la maggioranza è stata schiacciante (contrari solo Italia, Grecia e Cipro, perplessa la Francia), a Roma il collegio si è diviso a metà e ha superato lo stallo in virtù del doppio voto del presidente, Corrado Calabrò. La frattura nell’ Agcom fa emergere le difficoltà della politica della concorrenza. Già la legge Gasparri si era inventata il Sic, il Sistema integrato delle comunicazioni, che comprende perfino le promozioni nei supermercati, così da ampliare a dismisura, oltre i 24 miliardi di ricavi, l’ universo entro il quale calcolare le quote degli operatori. L’ effetto è stato quello di posizionare al 14,3%, ben lontano dalla soglia antitrust del 20%, il gruppo principale, la Mediaset-Mondadori che fa capo al premier. Ora, se la Gasparri allungava il brodo, l’ Agcom lo restringe, ma con identici risultati. La selezione dei mercati rilevanti, infatti, si basa sul principio della non sostituibilità tecnica: un quotidiano è radicalmente diverso da un mensile; la radio è la radio; e quando si arriva alla tv si opta, in sostanza, per non sostituibilità economica, visto che i palinsesti della tv free e di quella pay sono sempre più simili: un conto è la tv che si vede gratis e un altro conto è la tv in abbonamento. Le conseguenze sono due. La prima: non considerare la pubblicità un mercato rilevante per quanto, come osservano 4 commissari su 8, sia parzialmente fungibile tra i diversi mezzi e con ciò si mette al riparo da ogni scrutinio il sistema dei media berlusconiani. La seconda: far apparire Rupert Murdoch, il più temibile concorrente del Biscione, come l’ unico monopolista della comunicazione in questo Paese. Ma la realtà è maledettamente più complicata. Nel 2009, Sky Italia ha ricavato 2463 milioni di euro dagli abbonamenti, 223 dalla pubblicità, 26 da altro. A Mediaset gli spot portano 1.983 milioni, gli abbonamenti 308, il trading di contenuti e altro 215. La Rai prende dalla pubblicità 908 milioni, dal canone 1.630 milioni e da altri contratti con lo Stato 190 milioni. Accanto alle storiche specializzazioni si manifestano nuove tendenze: pubblicità in discreto sviluppo su Sky, abbonamenti in forte crescita in Mediaset. Insomma, è in atto un processo di assimilazione reciproca. Nel quale un solo soggetto è in strutturale imbarazzo: la Rai. Che cos’ è infatti il suo canone se non un abbonamento obbligatorio? Dov’ è la differenza con Sky e con la Mediaset del futuro che ambisce a dilagare nella pay tv? La differenza è che, essendo il canone spalmato sulle tre reti, l’ intera Rai subisce limiti più stringenti della concorrenza nella raccolta pubblicitaria. E qui si torna al punto di sempre. In un sistema pluralista e concorrenziale, il servizio pubblico radiotelevisivo, per il quale si paga il canone, andrebbe messo all’ asta lasciando la par condicio nella raccolta pubblicitaria. Se proprio lo si vuole riservare alla Rai, bisognerebbe avere l’ accortezza di concentrarlo su una rete o su quel che sarà il suo equivalente nel mondo digitale, con forma societaria definita e conti certificabili, lasciando il resto del gruppo a competere ad armi pari con gli altri, meglio se privatizzato. Ma la vera concorrenza in tv non la vuole nessuno dentro i palazzi della politica. E nemmeno in Confindustria, dove l’ impegno per le liberalizzazioni scema mano a mano che dal mercato del lavoro si va verso gli interessi dei suoi associati più forti, privati e pubblici.
Massimo Mucchetti