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 2010  luglio 24 Sabato calendario

I GESUITI DEL FAR WEST

Oggi che ucronia, fantastoria e ’storia controfattuale’ vanno tanto di moda, immaginiamoci uno scenario inedito. Roma, Porta Pia, 20 settembre 1870: l’artiglieria piemontese ha fatto il suo dovere, la breccia è prati­cata, le fanfare del La Marmora suonano alte, una nube di polvere e di grida an­nunzia la carica dei bersaglieri: quand’ec­co che, dall’alto delle mura, un nugolo di frecce accoglie i fanti piumati mentre da­gli spalti dei difensori non si alzano i «Vi­va il papa!» dei gendarmi pontifici né i « Saint Pierre et Saint Louis! » degli zuavi, ma belluine grida di guerra simili allo stri­dere del falco e all’ululare del lupo.

Non accadde: ma non si andò lontano dal vederlo accadere. Alla vigilia dell’ag­gressione, difatti, due capotribù della gente dei Coeur d’Alène, stanziata nel nordovest degli Stati Uniti, nell’area del­le Montagne Rocciose, scrivevano gene­rosamente al papa: non avevano grande esperienza di guerra, dicevano, ma a­vrebbero potuto essere utili in quel duro momento di prova, e si ritenevano «for­tunati di poter versare il loro sangue e do­nare le loro vite per il nostro buon padre Pio IX». E qui non siamo più nella fanta­scienza: al contrario, da una trentina d’anni quella era storia, storia vera. Tan­to della Chiesa, quanto dell’America e dei suoi popoli nativi, in quel momento mi­nacciati da una sparizione che si sareb­be purtroppo di lì a poco largamente tra­dotta in uno dei più tremendi e dei me­no noti genocidi della storia.

In un libretto non ampio, ma denso di fatti ben narrati e documentati, Mission. I gesuiti tra gli indiani del West , il giorna­lista e pubblico amministratore forlive­se Paolo Poponessi, che da anni si occu­pa della storia della Compagnia di Gesù in America, ci fornisce una sintesi delle sue ricerche relative alla sconosciuta o quasi epopea degli ’abiti neri’ – come li chiamavano appunto i pellerossa – in un’area del Nordamerica di antica colonizzazione in parte france­se, nella seconda metà dell’Ot­tocento. Scorrendo questa ri­cerca, ci si accorge che per noi italiani quegli avveni­menti sono altresì parte del­la nostra storia patria: mol­ti furono difatti i gesuiti ita­liani che s’impegnarono in un’opera di missione che si avviò a partire dalla prima­vera del 1841 nella stermi­nata, bella ma impervia e i­nospitale area delle Montagne Rocciose e riguardò etnie come i Teste Piatte, i Nasi Forati, i Coeur d’Alène e i Kalispel. La prima vera e propria missione cattolica in quell’area fu quella di Saint Mary nel Montana, così chiamata in onore della Vergine e di una ragazzina indiana di tredici anni ch’era morta in quel luogo e che, battezzata dai già cattolici irochesi, aveva assunto il no­me cristiano di Mary. Essa, morendo, a­veva misteriosamente previsto la nasci­ta in quel luogo di una missione.

Noi li chiamiamo ’pellerossa’, secondo l’uso dei coloni americani che definiva­no redskins quella gente abituata a tin­gersi il corpo d’ocra quando scendevano sul ’sentiero di guerra’; ma i missionari preferivano rimaner fedeli al termine in­dians, che nell’America settentrionale traduceva alla lettera quello indios ap­plicato fin dal Cinquecento dagli spagnoli a coloro che, con espressione politically correct, andrebbero definiti nativi ame­ricani. Convertiti a varie confessioni cri­stiano- riformate, ma anche ingannati da patti che il governo statunitense stipula­va con loro e che venivano regolarmen­te disattesi, devastati dalla diffusione del­l’alcol, decimati da malattie contagiose in alcuni casi diffuse premeditatamente (le celebri coperte contaminate dal bacillo del vaiolo), i nativi a mericani avevano già da tempo ormai iniziato al loro via crucis che li avrebbe condotti alla semi­sparizione e al concentramento in po­che riserve. Ma la Chiesa cattolica d’A­merica aveva stabilito, nel sinodo plena­rio di Baltimora del 1833, che la conver­sione e la cura animarum degli indiani dovesse venir affidata alla Compagnia di Gesù, ch’era già piuttosto forte in Cana­da e presente nel Missouri.

L’impresa fu affidata a un gesuita fiam­mingo poco più che trentenne, Pierre Jean de Smeet, il quale era già entrato in contatto con i Teste Piatte, nemici stori­ci dei Piedi Neri: già in contatto con grup­pi di missionari protestanti ma non trop­po soddisfatti dell’approccio, gli indiani della zona preferirono affidarsi agli ’a­biti neri’. De Smeet avrebbe avu­to modo anche d’incontrare storici e leggendari capi in­diani, come Toro Seduto e Cavallo Pazzo. La missione del ”41 comprendeva, oltre a De Smeet, il vandeano Nicholas Point, l’alsazia­no Joseph Specht, i belgi William Claessens e Char­les Huet e l’italiano Gre­gorio Mengarini che sa­rebbe divenuto linguista e­sperto negli idiomi dei na­tivi americani.

Il titolo Mission che Popones­si ha scelto per il suo saggio non s’ispira arbitrariamente al celebre film dedicato alle reducciones gesuite del Guaranì, soppresse nel Settecento dal go­verno portoghese guidato dall’illumini­sta marchese di Pombal e difensore de­gli interessi degli schiavisti della regione di San Paolo: quelle reducciones frainte­se e calunniate da personaggi come Vol­taire e Moravia. Quei gesuiti attivi nel Nordovest statuni­tense in pieno Ottocento s’ispiravano in­fatti a un libro, il Cristianesimo felice del nostro grande Ludovico Antonio Mura­tori, il quale sui gesuiti del Guaranì ha detto cose ben più serie e veritiere di quelle che si leggono nel voltairiano Can­dido.