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 2010  luglio 14 Mercoledì calendario

IL GENERALE GANZER NARCOTRAFFICANTE?


Vorrei parlare della sentenza che ha condannato a quattordici anni il generale Giampaolo Ganzer, capo dei Ros, nel giorno in cui commentiamo una straordinaria operazione condotta contro la ’ndrangheta che ha portato in galera trecento persone e colpito al cuore gli interessi al Nord della organizzazione criminale calabrese.

Non c’è dubbio che ieri c’è stato un clamoroso successo dello Stato a cui hanno contribuito tutte le forze di polizia e la magistratura sollecitate da un bravo ministro dell’Interno. Mentre la politica si sfarina ed emergono nuovi segnali di un intreccio profondo fra attività illegali e uomini del potere, il controllo di legalità non mostra segni di cedimento. Il merito è dei tanti magistrati che fanno il loro dovere anche rischiando di persona. C’è ancora, e per fortuna, un’opinione pubblica che non ha smesso di sostenere quei funzionari dello Stato che combattono giorno dopo giorno le associazioni criminali. C’è, infine, una generazione di investigatori che riesce a penetrare nelle maglie delle organizzazioni del malaffare e, pur non riuscendo a estirparle, è in grado di infliggere colpi severi persino a una organizzazione come la ’ndrangheta che è la più impermeabile anche perché fondata su solidi legami familistici.

Di questa generazione, parliamo di uomini che hanno fra i cinquanta o sessantanni, fa parte il generale Ganzer. L’ho conosciuto durante una visita ai Ros del Copaco, l’organismo parlamentare di controllo sull’attività dei servizi segreti. Una persona seria, gentile e di poche parole che senza retorica espose i successi ma anche le difficoltà del lavoro di investigazione. Non so come fossero gli alti ufficiali o i super-poliziotti delle generazioni precedenti. Mi colpì in Ganzer, come mi aveva colpito in altissimi funzionari di polizia che hanno poi assunto posizioni di rilievo nella vita repubblicana, la lontananza dallo stereotipo dello sbirro. C’è il fiuto del segugio, ma più forte è la preparazione tecnica e la capacità di saper guardare alla società nel suo insieme. Siamo di fronte a intellettuali specializzati in sicurezza sicuramente ambiziosi, ma capaci di stare al passo con i tempi e soprattutto in grado di integrare le conoscenze nazionali con l’approccio a un sistema internazionale del crimine che li ha portati a contatti con le esperienze di altri Paesi che altri funzionari dello Stato, per non parlare degli accademici delle università e dei politici, spesso non hanno.

La sentenza di Milano ci dice invece che il generale Ganzer, cioè uno degli uomini più rappresentativi di questa generazione di investigatori, è stato soprattutto un narco-trafficante. Il tribunale che lo ha condannato ha rinunciato a infliggergli pene per reati associativi stabilendo quindi che in totale solitudine il capo dei Ros avrebbe importato droga nel nostro Paese per immetterla nel mercato malavitoso per poi procedere ad arresti che avrebbero favorito la sua carriera. un ragionamento francamente bizzarro. Il curriculum di Ganzer, dagli inizia a Padova dove combattè il terrorismo fino all’approdo alla guida dei Ros, ci racconta di un carabiniere che ha saputo fronteggiare la criminalità con eccezionali risultati. Al processo il procuratore Pier Luigi Vigna, che guidò la procura antimafia e che è stato uno dei magistrati più prestigiosi di questo Paese, ha testimoniato a suo favore. I fatti per cui Ganzer è stato condannato riguardano epoche in cui non aveva il comando degli uomini accusati materialmente di aver maneggiato la droga. Il suo reato sarebbe sostanzialmente quello di aver usato metodi che forzavano la legalità pur di condurre in porto operazioni anti-droga: quelle famose operazioni sotto copertura che, se autorizzate da un magistrato, consentono a un investigatore di muoversi borderline. Questa è una materia delicata perché interviene, assai più delle intercettazioni telefoniche, sugli strumenti legali e meno ortodossi di condurre una battaglia per assicurare alla giustizia delinquenti pericolosi e sgominare organizzazioni criminali.

«Le sentenze vanno rispettate», ha subito detto il generale, che ha ricevuto attestati di stima dal governo e dal comando dell’Arma. una dichiarazione di lealtà che gli fa onore, ma è legittimo mostrare stupore quando si mette in discussione la libertà di un uomo dello Stato con un curriculum eccezionale e in pratica si sancisce la conclusione della sua carriera in conseguenza di una sentenza non ancora definitiva ma pesantemente infamante. Nessuno pretende impunità, né un brillante passato può mettere al riparo da colpe, ma resta forte l’impressione che il castello accusatorio fosse fragile e che la condanna sia stata eccessiva. Si vedrà se la sentenza di primo grado sarà confermata in appello. Resta l’amarezza di un nuovo uomo dello Stato che vede in un attimo distrutta la propria vita e la fiducia che l’opinione pubblica e i suoi uomini avevano in lui.