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 2010  luglio 14 Mercoledì calendario

UN ANNO SENZA FERNANDA OMAGGIO AL MITO DELLA PIVANO

Quando ho conosciuto Fernanda Pivano lei era già malata. Il suo corpo, diceva, l´aveva tradita. Fu praticamente la prima cosa che mi disse, buttando giù delle pillole. Era l´inizio degli anni ´90, quasi una ventina d´anni prima che morisse. Un´altra cosa che mi disse subito riguardava la sua bellezza perduta: so che è difficile a credersi, disse, a vedermi adesso, ma io da giovane ero bella.
Faceva bene, la Nanda, a insistere così sul lato fisico della propria presenza. Per me, come immagino per tanti altri, fare la sua conoscenza prescindeva, in un certo senso, dal fatto puramente corporeo. Si trattava di una leggenda vivente, e per di più anziana e snobbata dall´establishment, e agguerrita e combattiva, e generosa, e povera - dunque ancora più pura; nel suo cognome risuonavano tutti insieme quelli di così tanti miti della letteratura del Novecento, da fare di lei uno spirito. Bene faceva, perciò, a richiamare l´attenzione sul suo corpo, sul suo esserci per davvero, fisicamente, con un organismo in via di corruzione. Eravamo tutti troppo disposti a dimenticarcene.
Non aveva un´aria sana, del resto; a farci caso si vedeva che era malata: ma il fatto è che se lei non l´avesse rimarcato, non ci avremmo fatto caso. Non era un´ossessione, la sua: semplicemente ci ricordava di essere, oltre che una leggenda, ancora viva. (Come Papillon alla fine del film, sulla zattera di noci di cocco alla deriva nell´Oceano: «Maledetti, sono ancora qui!»). Scherzava con quel suo corpo malato che l´aveva tradita, ma contemporaneamente ne aveva cura, come ne avevano cura quelli che le volevano bene. Per questo, cominciando a volerle bene anch´io, ho cominciato anch´io ad averne cura. Niente di particolare, naturalmente, solo tutta la fisicità che poteva starci nei nostri incontri una volta o due all´anno. Abbracci. Carezze. Cose così. Il corpo della Nanda, sempre, tra me e la Nanda. Il corpo malato della Nanda.
Una volta però ne ho avuto cura per davvero. L´ho protetto. Camminavamo sul marciapiede, di sera, stavamo andando a piedi in un ristorante. Io le davo il braccio, e lei ci si aggrappava con forza – perché era così, la Nanda: se le davi il braccio lei ci si aggrappava per davvero. Camminavamo piano, alla sua velocità, e parlavamo. Ricordo esattamente anche di cosa: la Nanda mi stava consolando, a modo suo, della tristezza infinita che vivevo in quel periodo per esser stato fisicamente strappato ai miei figli, per poterli vedere così poco; mi stava dicendo che i bambini sono un impiccio, per uno scrittore, e che mi avrebbe fatto molto bene vivere senza marmocchi tra i piedi. Che avrei pensato di più a me stesso, alla letteratura, che avrei scritto un libro più bello.
Aveva ragione, in realtà, la mia tristezza forse era esagerata. Però era vera, reale, e in quel momento era padrona del mio corpo, come la malattia lo era del suo. Non potevo farci niente. E insomma, passin passino, andavamo verso il ristorante, la Nanda aggrappata al mio braccio, e io di colpo mi sono sentito male: la testa ha cominciato a girarmi, le tempie a pulsare, il cuore mi è salito nel collo, tutta la scatola cranica è sembrata allagarsi di mercurio caldo. Stavo per svenire – ed è stato lì che ho protetto il corpo della Nanda. L´ho protetto dal mio, dal danno che il mio stava per fargli. La sua stretta sul mio braccio era un attestato di fiducia totale; il suo vecchio corpo malato si affidava ciecamente al mio; se fossi andato in terra in quel momento me lo sarei tirato dietro, e gli avrei fatto più danni del cancro che lo rodeva. Perciò smisi di svenire, o per meglio dire rallentai lo svenimento, sviluppando uno sforzo assurdo per restare in piedi; mi guardai intorno, vidi che c´era Valeria un passo dietro di noi, attesi che Valeria facesse quel passo, le dissi in un orecchio di mettere il suo braccio al posto del mio sotto la mano stretta della Nanda, lei lo fece, meccanicamente, senza capire perché, e a quel punto, quando il corpo della Nanda era in salvo, staccato dal mio, al sicuro, svenni sul marciapiede.
L´ho salvata.
Ho sentito dire che Kerouac la considerava un angelo. Può essere. Può essere benissimo che lui e gli altri della beat generation – sbronzi, infelici, schizzati – percepissero nella sua presenza qualcosa di soprannaturale, di protettivo, d´incorporeo – anche se, stando a quel che diceva lei, in un´occasione Gregory Corso ha provato a saltarle addosso. Può darsi persino che fosse un angelo. Ma io credo che, angelo o non angelo, fosse anche un corpo, e che lo fosse molto più di quanto non si pensava. quel corpo che l´ha trasportata attraverso la leggenda per tutto il Novecento. quel corpo che si è ammalato, che è morto e che, ora, ci manca.
Per finire, vi dirò una cosa. Fatene quel che volete. Io non ho mai dato retta al consiglio che la Nanda mi dava, di stare alla larga dai marmocchi. Mi piacciono troppo. E credo che quella cosa che si scrive meglio senza bambini intorno, sicuramente vera per Kerouac o per Hemingway, per me, nel mio piccolo, non funzioni. Così, quando ho potuto mi sono riunito ai miei tre figli e, sempre quando ho potuto, ne ho perfino fatto un altro. Una femmina, stavolta, dopo tre maschi. Nina. Be´, ecco cosa vi dico: il tempo per la nascita di Nina scadeva a ferragosto dello scorso anno, ma Nina non ne voleva sapere di nascere. Non era pronta. 16 agosto, 17 agosto: niente. Poi è morta la Nanda. Poi Nina è nata.
 una cosa, come ho detto. E, come ho detto, potete farne quel che volete.