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 2010  luglio 14 Mercoledì calendario

A GENOVA C’ CHI GIUSTIFICA LA PROFANAZIONE DELLE TOMBE

Nel 1899, il becchino di Staglieno ebbe probabilmente modo di veder piangere Oscar Wilde davanti alla tomba della moglie, mentre copriva di rose scarlatte il sepolcro sul quale ancora oggi si può leggere il nome di Constance Lloyd. Mi piace pensare che quel becchino, allora, si commosse, davanti a quella ”livella” che rende tutti uguali e soli gli uomini. Oggi quelle rose non ci sono più: proprio in questi giorni, staglieno è salito agli onori della cronaca per una serie di delitti atroci commessi da parte di sette dipendenti dell’Amministrazione comunale in servizio al cimitero: forse già in vita volevano riservarsi quella vanga d’oro che Fabrizio De André avrebbe amato lasciar loro con il suo Testamento. Ma, credo, avrà cura - anche perché anche lui riposa qui, a Staglieno - di revocare l’annunciata disposizione.
Vediamo, però, di ricordare un poco i fatti. Il primo obiettivo della ”banda delle salme”, come è stata definita, era quello di recuperare protesi dentali, anche non d’oro, e protesi ortopediche in acciaio, titanio e altre leghe leggere pregiate, nonché di sottrarre ai cadaveri esumati anelli, collanine, monili, oggetti comunque di valore, lasciati loro addosso per ricordo dai parenti all’epoca della sepoltura. Il materiale così rimosso veniva suddiviso in bacinelle e stoccato all’interno degli armadietti degli ”addetti ai lavori”. Le protesi dentarie venivano acquistate in blocco da un ex dipendente dei servizi cimiteriali del Comune, mentre, per le protesi ortopediche, ciascuno ”badava al caso suo”. Quello che restava dei defunti depredati, le ossa umane spolpate, veniva poi gettato in un cassonetto della spazzatura nei pressi del cimitero.
Per secondo obiettivo, invece, i nostri si erano prefissi il recupero delle casse in legno pregiato prima della cremazione (pratica ormai molto diffusa dopo l’esumazione e largamente favorita dalle nostre leggi), in modo da rivenderle sul mercato dell’usato. Terzo obiettivo, furto di arredi di interesse storico e artistico: le lapidi più preziose venivano intenzionalmente rovinate per poterle rimuovere e rivendere i marmi pregiati sottratti. Infine, l’operazione ”sogliola”, ossia la riduzione delle bare originarie in loculi di forma più contenuta, senza attendere la scheletrizzazione del cadavere, in modo da ricavare maggior spazio da vendere ”in nero”.
Un’attività pianificata con tanta cura, effettuata ormai da anni, non credo neppure possa dirsi rientrante nelle fattispecie delittuose dei nostri articoli 407 e seguenti del codice penale (i delitti contro la pietà dei defunti). Ricordo che un grande maestro del diritto criminale, il Carmignani, nel 1808 spiegava come «diversi motivi possono indurre una persona a commettere violazioni di sepolcri»: odio verso la religione «pubblica», «fine di sortilegio», animo di commettere privata ingiuria, «isfogo di libidine» e, infine, come ultima ragione, il fine di lucrare.
Ma questa piccola impresa della profanazione agiva davvero per scopo di lucro o c’è qualcosa d’altro, di più inconsapevole, di più profondo? Non siamo certo di fronte al tipico caso di ”furto” al cadavere, peccato d’umana debolezza, mi sia concesso dire pure ”veniale”, se non altro perché, perlomeno, nobilitato dalla letteratura (si pensi soltanto all’Andreuccio da Perugia del Boccaccio). Ma questi sciacalli pagati dal Comune (come sono tutt’ora, seppure destinati a nuove mansioni…) si erano trovati un modo di arrotondare lo stipendio non soltanto rubando, ma saccheggiando resti mortali e profanando tombe con una precisione e un’indifferenza per i morti senza precedenti.
Ce ne sarebbe da rimanere quanto meno indignati. O forse sbaglio? Sbaglio: ecco, infatti, le reazioni del direttore generale del Comune di Genova, signora Maddalena Danzì, come riportate dalla stampa locale: «Le presunte razzie non mi colgono di sorpresa. Questi lavoratori, sempre a contatto con la morte, e addetti ad un’attività ritenuta socialmente poco qualificante, sono soggetti ad un abbruttimento psicologico». Per questa ragione c’è bisogno di una «vigilanza sanitaria del loro stato psicologico». Dulcis in fundo: «Personalmente comunque mi fa più orrore una turbativa d’asta, l’omissione di atti dovuti, o chi utilizza una carica pubblica per l’interesse dei terzi».
Questa è la persona che sta mettendo mano alla riorganizzazione dei servizi cimiteriali genovesi? Non so, sinceramente, se sia più socialmente qualificante del lavorare in un cimitero il pulire cessi in ospedali schifosi o il raccattare la monnezza sulle strade: sono tutte attività socialmente indispensabili, e chi le esercita va trattato con il rispetto che si deve a ciascuna persona indipendentemente dall’attività che svolga. Ma se il netturbino, invece di raccogliere la spazzatura, la gettasse per le vie? Sedute psicoanalitiche per tutti? Insomma, alla direttrice generale fa molto più orrore, tanto per fare un esempio concreto, la mancata contestazione di una contravvenzione stradale da parte di un vigile urbano a un suo conoscente! Ma come è possibile - mi chiedo - che si possa considerare ”bagatellare” la profanazione sistematica di tombe e resti mortali?
Cara direttrice, forse non c’è affatto di che sorprendersi per quello che è successo al cimitero: è solo il capolinea della nostra disumanizzazione.
*Università degli Studi di Genova